Riassunto delle tappe: giorno della creazione e giorno della Settimana Santa
In Dio tutto è simultaneo, tutto ciò che l’essere umano può gradualmente accogliere del suo amore è già presente in Dio, già offerto in anticipo. La parola di Dio che si è fatta carne in Gesù Cristo è la stessa che crea il mondo e ci fa passare dalle tenebre alla luce. Siamo creati a sua immagine e ci conduce alla piena somiglianza con lui:
«Nella gioia, renderete grazie a Dio Padre, che vi ha resi capaci di avere parte all’eredità dei santi, nella luce. Strappandoci al potere delle tenebre, ci ha collocati nel Regno del suo Figlio diletto: in lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. È immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creatura: in lui è stato creato tutto, nei cieli e sulla terra» (Colossesi 1, 11-16).
Così, Dio ha già realizzato la sua opera di salvezza, ci ha uniti al suo stesso figlio, facendo di noi le membra del suo corpo. Così, animati dallo stesso amore di suo figlio Gesù Cristo, Parola eterna di Dio, anche noi possiamo chiamare Dio Padre ed essere uniti dal suo amore gli uni agli altri. Ecco il cammino che l’essere umano percorrerà per riposare pienamente nell’amore di Dio e dei suoi fratelli e sorelle umani, ecco le tappe attraverso le quali accogliamo l’amore eterno di Dio nella sua piena misura:
- Giorno 1: la creazione della luce – Gesù entra a Gerusalemme. Egli dona liberamente la sua vita al mondo, luce che viene a illuminare le tenebre. Questa luce che egli porta al mondo è già luce di risurrezione.
- Giorno 2: La creazione dello spazio che separa le acque – Dalla parte destra di Cristo crocifisso sgorga la fonte della vita divina che viene a dissetare la terra. Nel battesimo l’essere umano accoglie l’unica sorgente che dà vita al mondo e fa di ogni creatura un’unica famiglia, un popolo di fratelli e sorelle.
- Giorno 3: «Le acque si raggruppano e formano i mari, ciò che è secco appare. Dio disse: che la terra faccia crescere erbe con semi di alberi che portano frutti con semi. L’albero è un’immagine del giusto che ha identificato la fonte della vita, estende le sue radici verso di essa, può accogliere il prossimo tra i suoi rami e portare frutto. Tutto questo si compie prima di tutto in Gesù Cristo sull’albero della croce, è lì che apre le braccia per accogliere l’intera umanità nel suo amore, è da questo albero della croce che il suo corpo, deposto nel sepolcro, cadrà in terra come il seme che porterà frutto con la sua morte, avendo dato al mondo la prova del suo amore. Anche noi siamo questa terra e possiamo accogliere la fede nella buona terra per diventare a nostra volta alberi e portare frutto attraverso la testimonianza della nostra fede nella resurrezione, fede nell’amore di Dio e nella sua misericordia che a nostra volta possiamo offrire al nostro prossimo.
- Giorno 4: I luminari separano il giorno dalla notte, sono segni per i giorni e gli anni, illuminano la terra. Il grande luminare governa il giorno, il piccolo ordina la notte e le stelle, entrambi illuminano la terra, ordinano il giorno e la notte e separano la luce dalle tenebre. Gesù con la sua morte ha rivelato al mondo la gloria di Dio, l’immensità del suo amore. Con la sua risurrezione ha manifestato la vittoria sul male e sulla morte, la vittoria della luce sulle tenebre: è diventato il sole di giustizia che risplende sui buoni e sui malvagi per offrire a ciascuno l’opportunità di dirigersi verso la luce. Coloro che avranno accolto il dono della vita divina saranno insieme come membra di un unico corpo illuminato dalla grazia e dall’amore di Dio. Saranno come la luna che riceve la luce del sole e individualmente renderanno testimonianza alla luce nelle tenebre come stelle, orientando l’umanità verso la speranza, verso l’amore, la vita, la risurrezione. Tutto questo, Gesù ce lo rivela anche nella risurrezione di Lazzaro. Anche Lazzaro risuscitò il quarto giorno dopo la sua morte. Da quel momento in poi si vorrà la morte di Gesù, ma le tenebre saranno vinte dalla luce della risurrezione e della vita.
- Giorno 5: Dio crea gli animali del mare e gli uccelli del cielo, vede che questo è buono e dice: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite il mare e la terra». Per guidare queste anime viventi che abitano nel mare e nel cielo e che sono immagine dei comportamenti umani, Gesù, durante l’ultima cena, istituisce gli apostoli. Attraverso l’Eucaristia, li rende membra del suo stesso corpo, li prepara a essere pescatori di uomini e a condurre l’umanità verso il cielo. Lo realizzeranno moltiplicando il pranzo eucaristico, invitando al pranzo, alla comunione e alla riconciliazione con Dio e con gli altri, simboleggiata dalla lavanda dei piedi.
- Giorno 6: «Dio fa uscire gli animali dalla terra e ne crea le diverse specie. E Dio dice: “Facciamo Adam (l’essere umano)”, affinché diriga gli animali, e creò l’essere umano, Adam, a sua immagine, a immagine di Elohim, il Dio trino che è relazione d’amore. Gli disse di portare frutto, di moltiplicarsi, di riempire la terra, di camminare su di essa e di dirigere pesci, uccelli e ogni cosa strisciante sulla terra. Il frutto degli alberi che portano semi sarà il loro nutrimento: ciò implica che le opere sterili non portano frutto, né seme e non nutrono l’essere umano. E l’erba sarà anche il cibo di tutti gli animali in cui è presente un’anima vivente. Non si tratta più degli animali che manifestano violenza, ma di quelli che manifestano la volontà di Dio, l’amore di Dio. “E Dio (Elohim) creò l’essere umano (אָדָם adam) a sua immagine a immagine di Dio (Elohim) lo creò, maschio e femmina li creò”. – L’unione dell’uomo e della donna, l’amore tra i due, è quindi immagine di Dio. Come un fidanzato è unito alla sua fidanzata per formare una cosa sola, così Gesù è unito all’umanità. Questa unione con Dio, una volta realizzata, permetterà a questa coppia, formata da Dio e dall’umanità, di portare frutto, di moltiplicarsi offrendo il proprio amore e la propria vita agli altri. È da notare che la parola Dio, Eloah in ebraico, è qui nella sua forma plurale Elohim, perché Dio è Trinità, relazione d’amore, quest’unica volontà di amare riunisce e unifica il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, per questo il verbo che definisce l’azione di Dio è al singolare, perché Dio è uno, ma nella creazione esprime la relazione d’amore che è in lui, il suo desiderio di condividere la sua gioia.
- Giorno 7: Il settimo giorno Dio completa e pone fine all’opera che ha fatto, la benedice e la santifica. Smette di fare, cioè di portare a compimento ciò che ha creato. Anche Gesù completa l’opera che conduce l’umanità dalle tenebre alla luce quando offre la sua vita e il suo respiro sulla croce, completando così l’unione dell’umanità con Dio. Così, l’umanità può riposare in Dio, rimettendo con fiducia il suo spirito nelle sue mani, proprio come Cristo ha fatto sulla croce. Anche Gesù, nel momento in cui rimette la sua vita, il suo respiro nelle mani del Padre, dirà: “Tutto è compiuto” (Giovanni 19,30). Nel settimo giorno è così rappresentata la partecipazione dell’umanità al riposo di Dio, è il celeste pranzo eucaristico, dove Dio può dimorare in noi e noi in lui, tutti uniti dal suo amore come membra di uno stesso corpo.
Così, l’umanità potrà vedere la gloria di Dio (giorno 1), accedere alla fonte della vita (giorno 2), essere come una terra fecondata da questa fonte e portare frutto (giorno 3), essere come luminari nel cielo, riflettendo la luce di Dio nell’oscurità (giorno 4), essere condotta dalle acque agitate e salate del mare di questo mondo all’ esperienza delle realtà celesti (giorno 5), tutto questo si realizzerà pienamente quando l’umanità sarà perfettamente unita a Dio, accedendo attraverso Gesù Cristo alla relazione filiale con Dio, all’unione con lui (giorno 6) e poi avendo pienamente rimesso la sua vita nelle mani di Dio, partecipando alla sua pace, mangiando alla sua mensa, Dio in noi e noi in lui, pieni della sua amore gli uni per gli altri, non solo dopo la morte, ma entrando fin da ora nella relazione filiale (giorno 7).
Articoli correlati
Questo articolo dà accesso ai seguenti approfondimenti:
- Genesi 1, 1 Bereshit
- Genesi 1, 2 Rouah Lo spirito di Dio è femminile
- Giovanni 4, 1-42 La fonte di acqua viva
- Matteo 13 Le parabole del Regno
- Il Padre Nostro
- Shabbat, il riposo di Dio
- Il Regno dei cieli
- Luca 14, 15-24 Gli invitati alla cena
- Luca 15, 11-32 Il figliol prodigo
- La cena eucaristica
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I sette giorni, tappe della vita in Dio, dell’opera di Dio in noi.
La prima sezione di lettura della Bibbia inizia con l’opera della creazione. La prima parola ebraica, bereshit, ci introduce nella dimensione divina, eterna. Questa parola significa infatti ciò che è nella testa e quindi ci introduce nella dimensione divina, nel piano di Dio, nella testa, nello spirito di Dio. Ciò implica entrare in una dimensione senza tempo, eterna, nella visione che Dio ha della creazione in cui si trovano il tempo e lo spazio. In Dio non c’è cambiamento, non c’è tempo, non c’è spazio, la sua opera è eterna.
Qui entriamo quindi nella dimensione divina, spirituale, che ci fa comprendere la volontà di Dio di offrire la sua vita, di condividere la sua felicità con gli altri, di dare vita al mondo, a tutta la creazione affinché questa sia la manifestazione del suo amore perché Dio è amore.
La parola di Dio esprime perfettamente la sua essenza, ciò che è, e questa parola si rende visibile attraverso l’opera della creazione. Dio vuole farsi conoscere, vuole condividere con noi la sua vita, la sua luce, la sua gioia. La sua parola si fa carne, si fa simile in tutto alla creatura, affinché possiamo vedere e comprendere lo spirito per mezzo del quale e nel quale egli compie ogni cosa.
Così Gesù ci dice:
«Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e affinché la vostra gioia sia piena. Questa la mia prescrizione (traduzione della parola greca ἐντολὴ entolē, ciò che conduce alla perfezione): che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di colui che rimette la propria anima per coloro che ama.» (Giovanni 15, 11-13).
La sua parola creatrice vuole condurci alla gioia perfetta, che consiste nel fare l’esperienza di Dio, che è amore e l’amore più grande, l’amore divino, consiste proprio in questo desiderio di dare la propria vita a coloro che ama, a tutte le sue creature che ama donando loro la vita.
Ora, questo testo, oltre a parlarci della volontà divina di dare vita al mondo, di crearlo materialmente, ci parla della sua opera che è quella di condurci alla gioia perfetta, alla piena esperienza dell’amore divino, gratuito, al dono della nostra stessa vita nell’amore e attraverso l’amore.
Così, tutto ciò che è descritto nella settimana della creazione è reso visibile da Gesù, il Messia, che manifesta lo spirito di Dio al mondo compiendo la sua volontà. Ci mostra in cosa consiste questo dono della vita, il più grande amore. Chiamiamo l’ultima settimana della vita di Gesù la “Settimana Santa”, è in quel momento che ci mostra il suo desiderio di offrirci la sua vita entrando a Gerusalemme per dimostrarci il suo amore per ogni creatura.
Entriamo quindi in questa dimensione spirituale in cui Dio abbraccia tutti i tempi perché è lui che li crea: il passato, il presente, il futuro, tutto è davanti a lui simultaneamente. L’opera visibile della creazione manifesta il mistero della Trinità, la relazione d’amore che è in Dio. Dà la vita al Figlio, lo genera, per amore, nell’amore che è lo Spirito d’amore di Dio, e il Figlio che è la Parola di Dio, in tutto simile a lui, immagine perfetta del Padre, espressione perfetta della sua volontà, gli restituisce questo amore nella gratitudine, gratitudine filiale verso colui che gli offre la vita. Il figlio rimette la sua vita nelle mani del Padre con piena fiducia, perché è il Padre che gli dà la vita, che lo genera, eternamente.
Tutto ciò che vive riceve la vita dallo Spirito di Dio secondo la volontà di Dio, espressa, manifestata, dalla sua Parola. Così, tutto ciò che esiste porta il marchio, il sigillo, dello Spirito di Dio creatore, tutto manifesta la relazione con il Padre che dà la vita. Siamo quindi invitati a condividere la vita divina come figli, creati a sua immagine e somiglianza. Scopriremo quindi in questo testo come Dio conduce la creazione alla gioia perfetta, come porta a compimento la sua creazione, tappa dopo tappa. Queste tappe, per noi si svolgono nel tempo della nostra vita, ma in Dio sono una sola, che riflette l’eterno desiderio di diffondere nella creazione il suo amore, di associare la creazione alla sua stessa gioia, di farci conoscere ciò che egli è attraverso la nostra esperienza dell’amore, un amore che è chiamato ad essere grande come il suo, perfetto come il suo, affinché noi siamo uno con lui.
I tre sensi della Scrittura:
Gesù ci dice:
«Non pensate che io sia venuto per abolire la Legge o i Profeti: non sono venuto per abolire, ma per portare a compimento» (Matteo 5, 17).
La parola greca per compiere è plērõsai (πληρῶσαι), verbo costruito sulla parola plērēs pieno, ciò significa che Gesù renderà pieno e perfetto il significato della Parola di Dio, prima di tutto perché ci mostrerà con le sue stesse azioni e comportamenti con quale spirito tutto ciò è detto. Infatti, la parola di Dio è eterna, non cambia, la sua opera è sempre la stessa. Quindi, la parola di Dio che si trova nelle Scritture, come ci dice l’evangelista San Giovanni, si fa carne e possiamo vederla in azione, davanti ai nostri occhi. Tutto ciò che Dio ha detto per secoli, Gesù viene a mostrarcelo, a compierlo. Se la Scrittura dice che Dio ci dà la sua vita, Gesù, che è la Parola di Dio fatta carne, ci dà la sua stessa vita e ci dimostra che questo è un gesto d’amore, un gesto d’amore gratuito e disinteressato. L’essere umano, infatti, non crede alla semplice parola, non si fida, dubita e sospetta, ma quando vede le azioni conformi a quella parola, allora crede.
Quindi, nella Scrittura vediamo la parola di Dio che:
- si manifesta nella natura, nell’opera della creazione, perché tutto riceve la vita, l’esistenza e l’essere da Dio. Così, quando Gesù vuole parlare della realtà celeste, dello spirito, dell’opera divina in ognuno di noi per renderci simili a lui, parla in parabole, cioè prende elementi visibili della natura, delle sue dinamiche, come l’albero che porta frutto, la luce che scaccia le tenebre, oppure le storie della nostra vita per darci accesso alla realtà spirituale. Può facilmente servirsi di tutti gli elementi della natura, poiché essa è opera della Trinità, porta il sigillo della vita, dello spirito e della parola divina che la crea e che si manifesta all’opera in essa.
- si manifesta e si compie nella persona di Gesù, in tutto ciò che dice e fa e anche nella storia della Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo. Gesù, istituendo gli apostoli e unendo i suoi discepoli a sé attraverso il sacramento dell’eucaristia, dove si nutrono del suo corpo e del suo sangue, dà vita alla Chiesa, all’insieme delle membra del suo corpo. Quindi, anche in ciò che vive la comunità delle membra del corpo di Cristo, si completa la vita di Cristo che vive, viene perseguitato e risorge quando la Chiesa porta testimonianza della sua parola con le proprie azioni nel mondo, quando viene perseguitata come Gesù e quando riflette sulla terra il mistero della risurrezione, della vittoria dell’amore sul male e sulla morte, della luce sulle tenebre.
- si manifesta nel singolo membro individualmente, nella vita specifica di ciascuno che sarà portato a testimoniare la propria fede attraverso l’amore che mostrerà al prossimo, rischiando e offrendo a sua volta la propria vita come Cristo. Questo terzo senso ci rivelerà l’opera di Dio nello spirito di ognuno di noi, come ci conduce alla somiglianza con Lui, quali tappe spirituali percorre ognuno di noi per camminare verso Dio, verso il più grande amore. Questo ci rivela a poco a poco la crescita della fede, della fiducia che possiamo riporre in Dio, fino a rimettere in Lui la nostra stessa vita, confidando nella vittoria dell’amore, della vita divina in noi.
GIORNO 1:
Vediamo quindi il giorno uno dell’opera di Dio. In effetti, si tratta di un solo giorno, perché l’opera di Dio è portare la luce dove c’è l’oscurità e questo giorno è unico perché l’opera di Dio è sempre la stessa per ognuno di noi e in ognuno di noi: strapparci all’oscurità e condurci alla piena luce dell’amore perfetto, della gioia perfetta, attraverso le infinite tappe della vita di ogni essere umano. Quindi, l’opera, l’azione di Dio, si ripeterà, si ritroverà in ciascuna delle fasi descritte nei sette giorni.
“Il Padre mio opera fino ad ora e anch’io opero” (Giovanni 5, 17).
Esaminiamo quindi il testo del giorno uno:
א בְּרֵאשִׁית בָּרָא אֱלֹהִים אֵת הַשָּׁמַיִם וְאֵת הָאָרֶץ
1. Bereshit [in ciò che è nella testa] creò Elohim (אֱלֹהִים Elohim) il cielo e la terra.
Comprensione delle parole:
(Sul primo termine della Bibbia, bereshit, vedi l’articolo Genesi 1, 1 Bereshit e tutti gli approfondimenti con i commenti ebraici e cristiani che vi si trovano).
Ecco un esempio di commento ebraico di questo primo termine della Bibbia:
בראשית בתחלת הזמן והוא רגע ראשון בלתי מתחלק שלא היה זמן קודם לו ברא עשה אינו ישנו ובזה לא יפול זמן כלל
Ovadia Sforno (Cesena 1470- Bologna 1550) su Genesi 1, 1
Bereshit, all’inizio del tempo, questo è il primo istante senza che sia divisibile, prima del quale non c’era tempo. Egli creò, fece esistere ciò che non è. A questo, il tempo non si applica affatto.
Entriamo nella dimensione divina eterna con questa prima parola bereshit. “Be” significa dentro, “resh” la testa, “it” per dirci che si tratta di un avverbio, cioè come, quando, dove avviene l’azione, in questo caso “nella testa” o “in testa”. In greco è stato tradotto con la parola arkhē che ci rimanda al principio di ogni cosa, a ciò che è all’origine di ogni cosa, quindi anche al piano o al volere divino di creare. Usciamo quindi dalla nostra dimensione terrena creata ed entriamo nel piano di Dio, nell’eterno volere divino di creare il mondo.
Il secondo termine bara’ significa azione di creare, il soggetto non può che essere Dio, è lui che crea, dal nulla e il termine “ha creato” è al singolare.
Il terzo termine “elohim” è il plurale di “eloah”, che significa dio. Perché questo plurale, se il verbo è al singolare? Secondo la lettura cristiana della Bibbia, Dio è ovviamente unico, ma in lui che è amore, l’amore è uno scambio tra il Padre e il Figlio, il loro reciproco amore è lo Spirito in cui sono uno, per uno stesso amore. Questo mistero dell’unicità di Dio nello scambio d’amore tra il Padre e il Figlio in un unico Spirito d’amore è chiamato mistero della Trinità, un solo essere in tre ipostasi, in greco mía ousía, treis hypostáseis, che è stato tradotto come “un’unica essenza divina, tre persone”. Il termine greco hypostase ci dice ciò che permane, ciò che sussiste: hypo significa sotto, sub in latino, e stasis intensifica l’azione dell’essere, dell’esserci e quindi del sub-sistere, in Dio tre sussistono: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, il loro amore e la loro volontà sono un’unica cosa, un unico Dio. Quindi, l’azione di creare è l’azione dell’unico Dio, dello scambio d’amore dei tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che sussistono in Lui, nell’amore.
La quarta parola shamaym è generalmente tradotto con cieli e anche in greco, nel Vangelo si parla dei cieli. Ora, la desinenza di questa parola -aym è la stessa di quella delle parole al duale, perché in ebraico le parole che vanno in coppia, come gli occhi, le mani, finiscono con -aym. L’italiano non conosce il duale. Ora, se dovessimo intendere questa parola come un duale, potremmo riflettere sulla portata di questo duale: ci sarebbero due cieli? Uno, il cielo che si trova sopra la terra e uno, il cielo che indica la dimensione spirituale, il regno di Dio o il regno dei cieli, quello dove si trova il Padre Nostro che è “nei cieli”. Quando Dio vuole manifestarsi, farsi conoscere, il suo Verbo si fa carne, diventa visibile. È lui il regno dei cieli che è sceso sulla terra, che è molto vicino a noi, dentro di noi, la presenza di Dio, in Gesù, che è venuto a stabilire il suo regno nel cuore di ognuno di noi. Quindi, l’opera creatrice manifesta l’amore del Dio trinitario e il suo Verbo si fa carne, il regno di Dio si rende visibile agli uomini, ancor più, viene a dimorare in noi. Questo, ovviamente, secondo un piano di Dio in cui tutto è simultaneo, tutto è sempre stato così.
Quinta parola erets, la terra dove Dio stabilisce il suo regno: «Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra», ci dice Gesù (Matteo 6, 10). Su questa terra abbiamo un cielo sopra di noi, ma anche un altro cielo, più importante, quello in cui regna l’amore di Dio nei nostri cuori, è in questo regno che siamo riuniti nell’amore perfetto, dove tutti insieme non siamo più che uno, a immagine del mistero d’amore che è nella Trinità stessa.
«Che tutti siano UNO, come tu, Padre, sei in me e io in te. Che anche loro siano UNO in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E io ho dato loro la gloria che tu mi hai dato, affinché siano UNO come noi siamo UNO: io in loro e tu in me. Che siano perfettamente UNO, affinché il mondo sappia che mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me”, ci dice Gesù (Giovanni 17, 21-23).
È dentro di noi che regna questa amore quando il nostro spirito è portato alla somiglianza di Dio, all’amore perfetto verso le sue creature. San Paolo, quando riceve notizie dalla comunità dei Colossesi che hanno ricevuto la predicazione del Vangelo e il battesimo, si esprime così: “Ci ha fatto conoscere il vostro amore (ἀγάπη agápē) nello Spirito” (Colossesi 1, 8).
ב וְהָאָרֶץ הָיְתָה תֹהוּ וָבֹהוּ וְחֹשֶׁךְ עַל-פְּנֵי תְהוֹם וְרוּחַ אֱלֹהִים מְרַחֶפֶת עַל-פְּנֵי הַמָּיִם
2 E la terra fu tohu va vohu (תֹהוּ וָבֹהוּ) e l‘oscurità sulle facce (עַל-פְּנֵי ‘al-pney) di tehom (תְהוֹם) e lo Spirito (רוּחַ ruaḥ) di Elohim (אֱלֹהִים) aleggiava (מְרַחֶפֶת meraḥefet) sulle superfici delle acque.
(Sullo Spirito di Dio vedi l’articolo Genesi 1, 2 Rouah Lo spirito di Dio è femminile e i suoi approfondimenti.)
Comprensione delle parole:
‘erets la terra. Secondo l’uso di questa parola nella Bibbia, e specialmente nelle lettere di San Paolo, la terra e ciò che è terreno è tutto ciò che, essendo stato creato e quindi inizialmente separato da Dio, deve dirigersi verso la realtà divina, per essere tutt’uno con Lui, unito a Dio dallo stesso amore. Ciò che è terreno è chiamato a diventare celeste (Prima lettera ai Corinzi, cap. 15 e Seconda lettera ai Corinzi, cap. 5). Questa parola implica un’idea di taglio, di separazione.
«L’uomo, plasmato con argilla, viene dalla terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come Adamo è fatto di argilla, così gli uomini sono fatti di argilla; come Cristo è del cielo, così gli uomini saranno del cielo. E come siamo stati a immagine di colui che è fatto di argilla, così saremo a immagine di colui che viene dal cielo. (1 Corinzi 15, 47)
hayeta: 3a persona singolare femminile, aspetto compiuto del verbo essere: fu, è stato. Questa anteriorità può implicare che in primo luogo la creatura, la terra, essendo creata, è distinta dal creatore, c’è una separazione. La terra è stata creata così. Ma poi Dio la conduce a sé, alla luce.
tohu va vohu: Per quanto riguarda la nostra vita terrena, c’è ciò che è materiale e ciò che è immateriale. Ciò che non guarda verso Dio (tohu), ciò che è distolto da lui. La realtà che evoca al meglio questa lontananza da Dio, ciò che è perduto, è quella del deserto. Il termine tohu è usato nella Bibbia anche in questo senso, per indicare ciò che è disorientato, quando ci perdiamo e ci sentiamo lontani da Dio. Così ciò che è disertato dalla presenza di Dio è morto, non presenta alcuna forma di vita. La terra deserta non è irrigata dall’acqua, dalla vita. La parola bohu, pronunciata qui vohu a causa della vocale che la precede, evoca ciò che è inconsistente, aereo, vuoto e quindi non ancora riempito dalla presenza di Dio, come l’aria e il vento che non sono ancora orientati verso Dio. Le parole tohu va vohu ci dicono come un onomatopea ciò che ha consistenza e ciò che non ne ha, ciò che è immobile come tohu e ciò che vola via come il vento vohu.
ḥoshekh: tenebra, oscurità. Tutto ciò che non è illuminato dalla presenza di Dio.
‘al-pney: la parola ‘al significa su, sopra e la parola pney (stato costrutto, cioè legato al genitivo che segue, della parola paniym), è un termine usato sempre al plurale, parente del verbo panah che significa orientato verso, rivolgersi verso, orientare il volto e lo sguardo verso. Quindi, paniym è ciò verso cui si è rivolti, ciò che è quindi visibile di una persona se si rivolge verso di noi, il suo viso o, per le cose, la faccia visibile di qualcosa. Quindi, in questo versetto avremo due volte al-pney per dirci prima che l’oscurità si trova dove non si guarda verso Dio, dove le acque non sono orientate verso di lui. E che, al contrario, dove le acque si orientano verso Dio, lì sono vivificate dallo Spirito di Dio.
tehom: in questa parola ritroviamo le consonanti della parola tohu che indicano ciò che non guarda verso Dio. La lettera “m” che vi è aggiunta evoca l’acqua, da cui la frequente traduzione di questa parola con “abisso delle acque”, dove regna l’oscurità di ciò che non è illuminato da Dio perché non orientato, non rivolto verso di lui.
rouaḥ elohim: rouaḥ è il termine femminile che significa spirito, soffio. Qui si tratta dello Spirito di elohim, lo Spirito di Dio che è amore in tre ipostasi unite dallo stesso amore, lo stesso spirito che è vita, la vita di Dio, che è solo amore. Vedere nel versetto precedente la spiegazione trinitaria del plurale del termine elohim.
meraḥefet: questo termine è un participio presente femminile, poiché il termine spirito, rouaḥ, è femminile in ebraico. Questo termine evoca il fremito delle ali di un uccello, il verbo raḥaf quasi come un onomatopea, ci dice il fremito. Vediamo quindi qui lo Spirito di elohim che spiega le sue ali, come un uccello sopra le due acque. Ora, le ali dell’uccello spesso evocano l’idea di protezione, Dio che ci prende sotto la sua ala. Allo stesso tempo, nell’immagine dell’uccello che prende sotto la sua ala vediamo anche la sua azione di riscaldare, covare, come quando una gallina copre le sue uova con le ali. Questo atto è interpretato dagli antichi come ciò che infonde la vita, grazie al calore trasmesso. Anche Gesù usa questa immagine per parlarci dell’opera divina:
«Quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Matteo 23, 37).
Quindi, qui lo Spirito di Dio abbraccia tutta la creazione, ciò che è vivo, le acque, per infondere in esse la vita, lo Spirito aleggia sopra le due acque.
al-pney: su ciò che è rivolto verso di lui, su ciò che può ricevere la vita, è lì che lo Spirito di Dio agirà.
mayim: questo termine, come il termine cielo, ha la desinenza -aym, identica a quella del duale, ma di solito è tradotto con un plurale, acque. È questo, infatti, ciò che indica nel linguaggio comune, quell’acqua non divisibile in unità, quell’acqua che è una moltitudine di gocce, che è plurale. Ma si può anche riflettere su questo aspetto duale delle acque, perché dovrebbero esserci due acque? Vedremo nei versetti sei e sette, ma anche in molti altri passaggi della Bibbia, che c’è un’acqua che viene dall’alto, che scende dal cielo e un’acqua che sgorga dalla terra. Il profeta Isaia ci parla così della parola di Dio che scende dal cielo come la pioggia e la neve, per abbeverare e fecondare la terra, per farla fruttificare:
«La pioggia e la neve che scendono dal cielo non tornano là senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e averla fatta germogliare, dando il seme al seminatore e il pane a chi deve mangiare; così la mia parola, che esce dalla mia bocca, non tornerà a me senza risultato, senza aver fatto ciò che desidero, senza aver compiuto la sua missione». (Isaia 55, 10-11).
Questa parola di Dio che è scesa sulla terra come la pioggia su ciò che era arido perché privo della parola di Dio, è Gesù stesso, la parola di Dio che si è fatta carne, che ha vivificato, fecondato l’essere umano e lo ha condotto alla sua pienezza, lo ha fatto fruttificare, lo ha riempito dell’amore di Dio rivelandogli il volto di Dio, pieno d’amore per ogni sua creatura.
Su ciò che è rivolto alla terra, ciò che è tohu, c’è l’oscurità e sulle due acque aleggia lo Spirito di Dio e infonde loro la vita. L’acqua è ciò che porta la vita.
ג וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים יְהִי אוֹר וַיְהִי-אוֹר
3 E Dio disse: “Che sia una luce” e fu luce.
ד וַיַּרְא אֱלֹהִים אֶת-הָאוֹר כִּי-טוֹב וַיַּבְדֵּל אֱלֹהִים בֵּין הָאוֹר וּבֵין הַחֹשֶׁךְ
4 E Dio (אֱלֹהִים Elohim) contemplò la luce perché (è) buona e Dio (אֱלֹהִים Elohim) separò la luce dall’oscurità.
ה וַיִּקְרָא אֱלֹהִים לָאוֹר יוֹם וְלַחֹשֶׁךְ קָרָא לָיְלָה וַיְהִי-עֶרֶב וַיְהִי-בֹקֶר יוֹם אֶחָד
5 E Dio chiamò la luce “giorno” e l’oscurità la chiamò “notte” e fu sera e fu mattina, giorno uno.
Vediamo, quindi, come i tre sensi della Scrittura sono contenuti nel giorno uno:
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
Vediamo come gli elementi della natura creata siano segni che ci rimandano alle realtà spirituali, come la natura manifesti lo spirito che le dà vita, l’ordine della parola divina che crea nella sua saggezza e attraverso la sua saggezza, affinché tutto sia un riflesso della sua gloria.
Il cielo, quindi, ci rimanda alla vita divina eterna e ordinata, alla visione dall’alto dove regnano pace e armonia. I Padri della Chiesa, seguendo le parole di San Paolo, vedono nella creazione del cielo anche la creazione delle creature celesti, della moltitudine degli angeli.
La terra è prima di tutto ciò che è arido e ha bisogno di essere fecondato dall’acqua, che è figura dello spirito che vivifica. Ogni creatura terrestre che popola il mondo è quindi evocata qui e vedremo, nelle tappe dei giorni successivi, come queste creature, esseri umani e animali, esprimeranno la nostra relazione con Dio, ora errando nelle tenebre, ora guidati dalla luce e dalla parola di Dio che li conduce verso le realtà celesti, dove la luce regna eternamente.
Così, quando Dio parla, quando Dio esprime ciò che è, la sua parola crea la luce. Questa luce è quella del volto di Dio, che si rende visibile e conoscibile alle sue creature. La luce esprime la volontà di Dio di condurre le sue creature a condividere la sua gioia, la sua vita: egli si fa vedere, si fa conoscere affinché possiamo essere illuminati e diventare simili a lui, illuminati dalla stessa luce, pieni della stessa gioia e dello stesso amore.
Notiamo ciò che i Padri della Chiesa sottolineano sempre: se quel giorno in cui fu creato il mondo fosse stato solo uno dei nostri giorni terreni, inscritto nel tempo, come potrebbe esserci stata prima la luce, quando non era stato creato nient’altro, quale sarebbe stato il supporto materiale di questa luce? Come esprime il primo versetto della Bibbia, nel libro della Genesi, qui è descritto l’opera eterna di Dio, il suo eterno desiderio di associare le creature alla contemplazione della sua gloria, di renderle partecipi della sua stessa felicità, del suo bene, della sua gioia, del suo amore. È tutto questo che contempliamo nel volto di Dio, nel suo sguardo, l’amore infinito con cui ci ama e che ci trasmette quando ci illumina. Alle creature la scelta di accogliere o rifiutare questa luce, di rimanere nelle tenebre o di venire alla luce. È per questo che la creazione della luce implica le tenebre, che non sono create da Dio, ma sono il risultato del nostro rifiuto di accogliere la luce. Possiamo frapporre un ostacolo per non ricevere la luce, possiamo rimanere nell’oscurità. Ma, come dicono i Padri della Chiesa e San Gregorio di Nissa in particolare: l’ombra prodotta da un ostacolo che si frappone alla luce è sempre limitata dai contorni dell’oggetto, dello schermo, e la luce non smette di circondarla, all’infinito. Quanto tempo potremmo rimanere nell’oscurità senza scoprire la luce che ci circonda, che è molto vicina a noi. Così, il vocabolario ispirato dalle immagini della natura ci parla della nostra condizione spirituale: siamo attratti da Dio, dall’amore, oppure rimaniamo nell’oscurità, nell’ignoranza della bontà divina, del suo amore gratuito. Come se descrivesse il raggio di luce, San Tommaso d’Aquino ci dice che Dio è “diffusivum boni sui”, cioè che diffonde il suo bene sulle sue creature, che vuole associarci alla sua gioia, che vuole darci la vita, la sua vita, il suo amore, affinché questa amore e questa gioia siano in noi al massimo e che proviamo anche noi questo amore perfetto, il più grande amore che consiste nel dare la vita per coloro che amiamo, nel volere che anche loro condividano la nostra felicità, la nostra gioia. Ecco le parole di Gesù nel Vangelo:
«Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta. Ecco ila mia prescrizione: Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di colui che rimette la propria anima per coloro che ama» (Giovanni 15, 11-13).
È Lui, Gesù, questa parola di Dio che crea. Veniamo ora al secondo significato della Scrittura, quello che vede la parola di Dio manifestata in Gesù Cristo.
- L’opera di Dio manifestata e compiuta nella persona di Gesù e nella Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo:
La Bibbia è considerata Parola di Dio, ma ciò che è scritto può essere interpretato in modi diversi se non sappiamo con quale spirito è detto. Possiamo crederci o no, possiamo anche dire che sono solo parole, ma queste parole si traducono in azioni? È così che la parola di Dio si è fatta carne, affinché potessimo credere nel gesto di amore gratuito con il quale e nel quale ci crea, cioè ci dona la sua vita.
Ora, questa parola di Dio che si fa carne è chiamata in greco, nel Vangelo di San Giovanni, lógos. Il termine greco lógos ha un significato molto più ampio di quello di parola, non si riferisce solo a una parola pronunciata, verbalizzata, ma comprende anche tutta la saggezza e la “logica” divina che dà vita al mondo e la cui creazione manifesta l’ordine e la scienza attraverso i principi che la governano e attraverso la bellezza e la complessità della sua struttura. Il lógos di Dio pervade tutto ciò che esiste, perché tutta la creazione che ammiriamo è opera sua. Quindi, quando Dio parla, è il suo lógos che si manifesta e, secondo le parole del Vangelo, questo lógos si è fatto carne e conduce gli uomini verso la sua luce, verso la visione di Dio, attraverso le opere d’amore di cui noi stessi possiamo fare esperienza.
Vediamo, quindi, il testo dell’inizio del Vangelo di San Giovanni che è esso stesso una spiegazione delle parole dei primi versetti della Genesi citati qui sopra. San Giovanni ha raccolto le spiegazioni di Gesù stesso su come è venuto per adempiere le Scritture e renderci visibile l’opera di Dio creatore che dona la sua vita al mondo come Gesù l’ha offerta sulla croce.
«Nell’arkhē era il lógos (ὁ λόγος) e il lógos era presso Dio e il lógos era Dio ed era nell’arkhē presso Dio. Tutte le cose sono venute all’esistenza per mezzo di lui, e senza di lui neppure una delle cose create è stata creata. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini: e la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa [o afferrata o fermata]» (Giovanni 1, 1-5).
L’inizio del testo della Genesi ci introduce quindi nella mente di Dio, nel suo lógos, dove tutto è concepito e quindi creato. Così, anche San Paolo ci introduce in questo piano divino di salvezza degli esseri umani, colui che è l’arkhē, l’origine di ogni cosa è anche colui che conduce l’opera alla sua perfezione conducendo la creatura dalle tenebre alla piena luce dove egli stesso risplende in ognuno. Ecco le sue parole che riassumono tutta l’opera della creazione e della salvezza:
«Strappandoci al potere delle tenebre, ci ha collocati nel Regno del suo Figlio diletto: in lui abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito, prima di ogni creatura: in lui, tutto è stato creato, nel cielo e sulla terra. Gli esseri visibili e invisibili, le potenze, i principati, le sovranità, le dominazioni, tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di ogni cosa e tutto sussiste in lui. Egli è anche la testa del corpo, la testa della Chiesa: egli è il principio (l’arkhē), il primogenito tra i morti, affinché abbia il primato su ogni cosa. Perché Dio ha ritenuto opportuno che in lui abiti tutta la pienezza e che tutto, per mezzo di Cristo, sia finalmente riconciliato, facendo la pace mediante il sangue della sua croce, la pace per tutti gli esseri sulla terra e in cielo. (Colossesi 1, 13-20).
Allo stesso modo, San Giovanni, nella sua visione della realtà celeste in cui contempla il compimento dell’opera divina e la partecipazione delle creature alla sua piena luce, una volta strappate al potere delle tenebre, ci dice:
«La notte sarà sparita, non avranno più bisogno della luce di una lampada né della luce del sole, perché il Signore Dio li illuminerà; regneranno nei secoli dei secoli» (Apocalisse 22, 5).
Di questo ci parla anche il testo della Genesi sull’opera di Dio, che consiste non solo nel creare il mondo, ma nel condurre le sue creature dalle tenebre alla piena luce, a quella luce dell’amore divino che rimane per sempre, a quel giorno unico ed eterno che non conosce tramonto. Tutte queste tappe attraverso le quali l’essere umano è condotto dalle tenebre alla piena luce sono quindi descritte nei sette giorni che descrivono l’azione di Dio di farci passare dalle tenebre alla luce, azione che è sempre la stessa, unica, che si ripete in ogni singola tappa.
Questi sette giorni della creazione, nei quali l’opera di Dio raggiunge la sua perfezione, li vediamo anche nei giorni della Settimana Santa, durante i quali celebriamo l’opera di Cristo che ci fa passare dalle tenebre della morte alla piena luce della risurrezione. Meditare sui giorni della Settimana Santa significa contemplare l’opera di Dio, che ci crea donandoci la sua vita e che conduce questa vita alla sua perfezione, affinché anche noi possiamo credere ed entrare così nella relazione filiale fiduciosa che è al centro del mistero della Trinità. Così potremo vincere le tenebre del dubbio che ci separano da Dio e accedere alla piena luce del suo amore gratuito. Questo primo giorno è quindi anche il giorno in cui Gesù accetta di entrare a Gerusalemme, accetta di entrare nella nostra oscurità per dissiparla e portarvi la luce. Egli porta e rende visibile la luce del suo amore, del vero volto di Dio, al mondo, e le tenebre che non lo accolgono indicano lo smarrimento delle creature, la cecità di coloro che non riconoscono la fonte della vita, della gioia, della felicità nell’amore e la cercano dove non c’è, in ciò che è terreno e passeggero: potere, ricchezza, piaceri, …
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
Il primo giorno ci dice anche come ognuno di noi è invitato ad accogliere la luce. Infatti, riceviamo la vita quando ci rendiamo conto che essa viene da Dio. Questo riconoscimento della fonte della vita, unica per tutti gli esseri, trasforma la nostra visione del mondo, ci rende un popolo di fratelli e sorelle, in questo senso ci illumina. Il giorno del battesimo è chiamato in greco il giorno dell’illuminazione perché, avendo identificato la fonte della vita, diventiamo un popolo di fratelli e sorelle. Siamo quell’acqua che riceve lo spirito di Dio. Accogliere questa luce significa aprirsi alla conoscenza di Dio, riconoscere che ogni vita viene da Lui, questo è il primo passo attraverso il quale l’essere umano viene strappato all’oscurità.
2° GIORNO
ו וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים יְהִי רָקִיעַ בְּתוֹךְ הַמָּיִם וִיהִי מַבְדִּיל בֵּין מַיִם לָמָיִם
6 E Dio disse: “Sia uno spazio in mezzo alle acque” e ci fu una separazione tra l’acqua e l’acqua.
ז וַיַּעַשׂ אֱלֹהִים אֶת-הָרָקִיעַ וַיַּבְדֵּל בֵּין הַמַּיִם אֲשֶׁר מִתַּחַת לָרָקִיעַ וּבֵין הַמַּיִם אֲשֶׁר מֵעַל לָרָקִיעַ וַיְהִי-כֵן
7 E Dio fece lo spazio e separò l’acqua che è sotto lo spazio dall’acqua che è sopra lo spazio e così fu.
ח וַיִּקְרָא אֱלֹהִים לָרָקִיעַ שָׁמָיִם וַיְהִי-עֶרֶב וַיְהִי-בֹקֶר יוֹם שֵׁנִי
8 E Dio chiamò lo spazio “cieli” e fu sera e fu mattina, secondo giorno.
I tre sensi della Scrittura:
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
Queste acque che sono divise in due, quelle che sono sopra lo spazio e quelle che sono sotto, ci indicano quindi due realtà: l’acqua che scende dal cielo è quella che porta la parola di Dio agli esseri umani, quella che li collega con la vita divina. Si può ricordare qui che la parola mayim, acqua, ha l’aspetto di un duale, cioè di una parola che designa una coppia di oggetti, come qui l’acqua di sopra e l’acqua di sotto, e termina in –ayim, proprio come la parola shamayim, cieli, che potrebbe anche essere interpretata come duale, come due cieli. Da notare anche altri due importanti termini della Bibbia che hanno l’apparenza di un duale e terminano in –ayim: Yerushalayim, Gerusalemme e Mitsrayim, l’Egitto. Per quanto riguarda Gerusalemme, nella Bibbia si parla costantemente di una Gerusalemme celeste, una Gerusalemme dall’alto, ma anche della Gerusalemme terrena, la città dove il popolo ebraico ha eretto il tempio di Dio. Nella Gerusalemme terrena si trova anche il monte Sion, la fortezza di Davide, e il salmo 86 ci parla così della Gerusalemme celeste:
«È fondata sulle montagne sante. Il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Per la tua gloria si parla di te, città di Dio! «Cito l’Egitto e Babilonia tra coloro che mi conoscono». Vedete Tiro, la Filistea, l’Etiopia: ognuna è nata lì. Ma Sion è chiamata: “Mia madre!”, perché in essa è nato ogni uomo. È lui, l’Altissimo, che la sostiene. Nel registro dei popoli, il Signore scrive: “Ognuno è nato lì”. Tutti insieme ballano e cantano: “In te, tutte le nostre fonti!”.
Questa città, dove ogni uomo è nato, è quella che rappresenta il regno di Dio, in cui gli esseri umani sono rinati, a una nuova vita, quando hanno capito che sono tutti fratelli e sorelle. Secondo la tradizione, Sion è l’antico nome dato al monte situato a Gerusalemme, sul quale Abramo sarebbe stato pronto a offrire suo figlio Isacco (molto prima della fondazione della città di Gerusalemme). Ma questo episodio della Bibbia annunciava anche quello in cui il figlio di Dio, Gesù, avrebbe offerto la propria vita sul monte chiamato Golgota, successivamente identificato con il monte Sion. È infatti ai piedi della croce che l’essere umano trova la vera fonte della vita, in Dio che la offre all’umanità nell’amore e nel perdono. È questa fede nel dono di Dio che fa nascere ogni essere umano di nuovo, a una nuova relazione filiale con Dio e a una nuova relazione fraterna con il prossimo.
L’altro termine che presenta anche una forma identica a quella del duale è il termine Mitsrayim, Egitto. L’Egitto nella storia del popolo ebraico è il paese in cui il popolo è stato schiavo, è una figura della schiavitù. Ma anche qui abbiamo un duplice significato: c’è la schiavitù fisica e la schiavitù spirituale in cui l’essere umano è prigioniero dell’incatenamento delle violenze, quando risponde al male con il male, all’offesa con l’offesa. Ora, Gesù viene a spezzare queste catene, a liberarci dal male e dalla morte attraverso la sua misericordia, introducendo l’amore dove c’era l’odio, abbattendo il muro che separa gli esseri umani divisi.
Le acque che scendono dal cielo sono quindi quelle che portano lo spirito d’amore di Dio alle acque dell’umanità che è in basso, ma che nel giorno “uno” ha già riconosciuto dove si trova la fonte della vita, la luce.
Lo spazio chiamato “cieli” (shamayim), parola che ha la forma di un duale, evoca quindi anche questa realtà spirituale, celeste, le creature dei cieli, gli angeli che vanno dalla terra al cielo e dal cielo alla terra per portare la parola, l’ispirazione, il soccorso di Dio agli esseri umani. Ricordiamo il sogno di Giacobbe:
«Ecco, una scala era appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, e gli angeli di Dio salivano e scendevano.» (Genesi 28, 12)
In questo spazio tra il cielo e la terra, gli angeli, servitori e messaggeri di Dio, scendono verso il basso, verso le creature, per servirle e portare loro la parola di Dio, e salgono verso l’alto per servire Dio, contemplarlo e, nel suo sguardo, conoscere il mondo per amarlo come Lui lo ama. I Padri della Chiesa ci spiegano, a proposito di questo sogno, che anche qui c’è l’annuncio dell’incarnazione del Verbo di Dio che si è fatto carne, che ha assunto la condizione delle creature. Così, gli angeli possono servire Dio in alto nel cielo e in basso sulla terra, perché si è fatto uno di noi.
Le tenebre figurano quindi la cecità dell’essere umano, prigioniero delle sue rivalità, gelosie, separato dalla fonte di vita, d’amore, e le acque del cielo figurano il soccorso che Dio porta a coloro che hanno visto la luce.
Ci fu una sera, ci fu un mattino perché attraverso l’acqua del suo spirito, della sua parola, attraverso il legame che possiamo stabilire con Dio nella fede, nella preghiera, ritrovando la nostra relazione filiale, ci conduce dalle tenebre alla luce. Seconda tappa.
- L’opera di Dio manifestata in Cristo e nella Chiesa, formata dalle membra del corpo di Cristo:
Ecco come Gesù stesso ci parla dell’acqua, della fonte di acqua viva che sgorga da lui stesso, dal suo costato aperto sulla croce, immagine della vita che ha offerto per noi, affinché anche noi abbiamo la vita che sgorga in noi:
«L’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù si alzò e gridò: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Disse questo a proposito dello spirito che avrebbero ricevuto coloro che avrebbero creduto in lui: infatti lo Spirito Santo non era ancora, perché Gesù non era ancora stato glorificato. (Giovanni 7, 37-39)
Con queste parole, Gesù annuncia che il suo spirito d’amore sarà diffuso sui credenti e il segno visibile di questo dono dello Spirito si realizzerà nel momento in cui Gesù sarà glorificato, cioè crocifisso, poiché Gesù annuncia così la sua morte imminente: “È venuta l’ora in cui il Figlio dell’uomo deve essere glorificato”. (Giovanni 12, 23). E poi, quando sarà morto sulla croce, « uno dei soldati con la sua lancia gli trafisse il costato; e subito ne uscì sangue e acqua. » (Giovanni 19, 34). È di quest’acqua che Gesù parla, unita al sangue, segno della sua vita offerta per la moltitudine. Annuncia il dono della battesimo, cioè dello Spirito, perché con l’atto di fede del battesimo entriamo nella relazione filiale con Dio, fonte della vita, e riceviamo in noi lo Spirito d’amore della relazione filiale che unisce, nella Trinità, il Padre al Figlio. Gesù ci invita a ricevere questo Spirito, a condividere anche noi il rapporto filiale che lo unisce a Dio Padre, a vivere dello Spirito d’amore che ci rende figli. Allora ci ameremo come fratelli e sorelle, come Dio ci ama.
Allo stesso modo, parlando con una donna samaritana, alla sesta ora, cioè alla stessa ora in cui sarebbe poi morto, annunciando il dono del suo spirito, della sua vita, le disse:
«Se tu avessi conosciuto il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere», gli avresti chiesto e lui ti avrebbe dato un’acqua viva, che qualcuno beva dell’acqua che io gli darò e non avrà più sete per l’eternità e inoltre l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente di vita zampillante per la vita eterna. (Giovanni 4, 10.14).
Gesù disseta il nostro spirito con il suo spirito. I credenti che guardano a lui ricevono quest’acqua dal cielo, lo Spirito d’amore di Dio. (Vedi anche l’articolo Giovanni 4, 1-42 La fonte di acqua viva).
Anche molti altri passaggi della Bibbia ci parlano della sorgente d’acqua, una sorgente che viene da Dio. Così, il profeta Ezechiele, in una visione, contempla la casa di Dio, il tempio dove abita Dio, e vede sgorgare una sorgente dalla sua destra:
«Sotto la soglia del Tempio, l’acqua sgorgava verso oriente, poiché la facciata del Tempio era rivolta verso oriente. L’acqua scendeva da sotto il lato destro della Casa, a sud dell’altare. L’uomo mi fece uscire dalla porta nord e mi fece fare il giro dall’esterno, fino alla porta che si affaccia a est, e anche lì l’acqua scorreva dal lato destro. L’uomo si allontanò verso est, con una corda in mano, e misurò una distanza di mille cubiti; poi mi fece attraversare l’acqua: ne avevo fino alle caviglie. Misurò ancora mille cubiti e mi fece attraversare l’acqua: ne avevo fino alle ginocchia. Misurò ancora mille cubiti e mi fece attraversare: avevo l’acqua fino alla vita. Ne misurò altri mille: era un torrente che non potevo attraversare; l’acqua era aumentata, bisognava nuotare: era un fiume invalicabile. Allora mi disse: “Hai visto, figlio dell’uomo?” Poi mi riportò sulla riva del fiume. Quando mi riportò indietro, ecco che c’erano molti alberi sulle due sponde del fiume. Mi disse: “Quest’acqua scorre verso la regione orientale, scende nella valle del Giordano e si riversa nel Mar Morto, di cui purifica le acque. Ovunque arriverà il fiume, tutti gli animali potranno vivere e proliferare. I pesci saranno molto abbondanti, perché quest’acqua purifica tutto ciò che penetra, e la vita appare in ogni luogo dove arriva il torrente. Allora i pescatori staranno sulla riva da Ain-Ghedi fino a Ain-Eglaim; lì si faranno asciugare le reti. Le specie di pesci saranno tante quante quelle del Mediterraneo. Ma le sue paludi e i suoi bacini non saranno bonificati: saranno riservati al sale. Sulle due rive del fiume cresceranno ogni tipo di alberi da frutto; il loro fogliame non appassirà e i loro frutti non mancheranno. Ogni mese porteranno frutti nuovi, perché quest’acqua proviene dal santuario. I frutti saranno un alimento e le foglie una medicina. (Ezechiele 47, 1-12)
Ma il tempio di Dio, la casa dove Dio abita sulla terra, questa casa che non è stata fatta da mano d’uomo, è il corpo stesso di Gesù che parla di sé come il tempio di Dio:
«I Giudei gli dissero: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”». Gesù rispose loro: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo rialzerò». I Giudei gli risposero: «Sono occorsi quarantasei anni per costruire questo tempio e tu in tre giorni lo rialzeresti!». Ma egli parlava del tempio del suo corpo». (Giovanni 2, 18-21).
È questo corpo di Cristo che sarà crocifisso in cima al Golgota ed è dal suo corpo che sgorgherà la fonte di acqua viva che scaturisce dalla parte destra del tempio di Dio, secondo la visione del profeta Ezechiele. Infatti, Dio afferma spesso che non spetta all’uomo costruirgli una casa. Questa casa, questo tempio, dove Dio abita sulla terra, è Cristo. Ecco anche l’affermazione dell’apostolo San Luca:
«L’Altissimo non abita in ciò che è fatto da mano d’uomo, come dice il profeta: Il cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi. «Quale casa mi costruirete, dice il Signore, quale sarà il luogo della mia dimora? Non è forse la mia mano che ha fatto tutto questo?» (Atti 7, 48-50)
Dio stesso si è quindi fatta una casa sulla terra, questa casa è Gesù Cristo, dove risiede in pienezza lo Spirito di Dio, la vita divina. Questa vita che è stata offerta agli esseri umani sulla croce, questa vita che è fluita nell’acqua e nel sangue che sono sgorgati dal suo lato destro trafitto sulla croce. Ancora una volta vediamo l’importanza di questa sorgente, contemplata da Ezechiele nella sua visione profetica che annuncia l’opera eterna di Dio, compiuta in Gesù Cristo. La sorgente che sgorga dal lato destro del tempio diventa un immenso fiume capace di rendere dolci anche le acque amare del Mar Morto. Ecco l’immagine della vita di Cristo, dell’amore di Dio che raggiungerà i luoghi aridi dello spirito umano, per ridare loro speranza e vita, attraverso la sua misericordia offerta a tutti. Questa immagine del fiume e dell’albero che porta frutti in ogni stagione si ritrova ancora nella visione dell’Apocalisse di San Giovanni, visione della realtà celeste, della Gerusalemme celeste, del trionfo di Cristo, immolato come un agnello, sul male che abita il cuore dell’essere umano:
«Poi l’angelo mi mostrò l’acqua della vita: un fiume splendente come cristallo, che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello. Al centro della piazza della città, tra i due bracci del fiume, c’è un albero della vita che dà frutti dodici volte: ogni mese produce i suoi frutti; e le foglie di questo albero sono una medicina per i popoli». (Apocalisse 22, 1)
Questo albero da cui sgorga la vita è Gesù Cristo, è anche di lui che parla il racconto del giardino dell’Eden, del paradiso terrestre, nel secondo capitolo della Genesi:
«Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni albero gradevole alla vista e buono da mangiare e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino e da lì si divideva e diventava quattro teste…» (Genesi 2, 9-10).
I Padri della Chiesa hanno sempre identificato questo albero della vita con il legno della croce. In ebraico, legno e albero si dicono allo stesso modo (עֵץ ‘ets). È dalla croce, dal lato destro di Cristo come dal lato destro del Tempio di Dio contemplato da Ezechiele, che sgorga l’acqua della vita, quella che si divide in quattro fiumi che danno vita al mondo intero.
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
L’acqua è l’immagine dello spirito, lo spirito dell’amore di Dio che vivifica. Ogni essere umano creato a immagine di Dio riceve la vita di Dio, è animato dal soffio di Dio, dal suo spirito. Ma quest’acqua, questo spirito, nell’uomo può corrompersi, diventare amaro, salato. Il nostro spirito, invece di aderire all’amore di Dio, nella relazione filiale, fiduciosa, riconoscente può seguire cattive inclinazioni, ispirazioni, può corrompersi. Così, l’uomo che è nelle tenebre, che non trova più la vera fonte della vita, della gioia, riceve dapprima la luce quando riconosce che questa fonte proviene da Dio e poi, seconda tappa, secondo giorno, alimenta questa vita con lo spirito di Dio. Così, l’acqua che è sotto i cieli, la nostra umanità, attraverso la preghiera, attingendo allo spirito di Dio, è vivificata. Accoglie l’acqua del cielo, accogliendo la parola di Dio che si è fatta carne in Gesù Cristo. Così, anche secondo l’antica tradizione ebraica, le acque che sono in basso, sulla terra, salgono verso il cielo attraverso la preghiera e dall’alto la grazia, lo spirito di Dio scende su di noi e vivifica il nostro spirito, riempiendolo dell’amore di Dio e del prossimo. Secondo giorno, seconda tappa: dopo aver riconosciuto l’amore di Dio, fonte di vita per tutti gli esseri, l’essere umano mantiene la relazione filiale attraverso la preghiera che collega il suo spirito allo Spirito d’amore di Dio e accoglie così la parola di Dio che lo vivifica e suscita in lui l’amore per il prossimo. L’essere umano può ora attingere alla fonte dell’amore, della vita.
3° GIORNO
ט וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים יִקָּווּ הַמַּיִם מִתַּחַת הַשָּׁמַיִם אֶל-מָקוֹם אֶחָד וְתֵרָאֶה הַיַּבָּשָׁה וַיְהִי-כֵן
9 E Elohim disse: “Che le acque sotto i cieli tendano verso un unico luogo e che sia visto ciò che è asciutto e così fu.
י וַיִּקְרָא אֱלֹהִים לַיַּבָּשָׁה אֶרֶץ וּלְמִקְוֵה הַמַּיִם קָרָא יַמִּים וַיַּרְא אֱלֹהִים כִּי-טוֹב
10 E Elohim chiamò ciò che è secco “terra” e il raggruppamento delle acque lo chiamò “mari” e vide, Dio, che (questo è) buono.
יא וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים תַּדְשֵׁא הָאָרֶץ דֶּשֶׁא עֵשֶׂב מַזְרִיעַ זֶרַע עֵץ פְּרִי עֹשֶׂה פְּרִי אֲשֶׁר זַרְעוֹ-בוֹ אֲשֶׁר זַרְעוֹ-בוֹ עַל-הָאָרֶץ וַיְהִי-כֵן
11 E Elohim disse: “Che la terra produca germogli d’erba che seminino un seme di albero da frutto che faccia un frutto in cui sia il seme per la sua specie sulla terra e così fu”.
יב וַתּוֹצֵא הָאָרֶץ דֶּשֶׁא עֵשֶׂב מַזְרִיעַ זֶרַע לְמִינֵהוּ וְעֵץ עֹשֶׂה-פְּרִי אֲשֶׁר זַרְעוֹ-בוֹ לְמִינֵהוּ וַיַּרְא אֱלֹהִים כִּי-טוֹב
12 E la terra fece spuntare germogli d’erba che seminano ciascuno per la sua specie e alberi che fanno frutti in cui c’è il seme ciascuno per la sua specie e Elohim vide che (questo è) buono.
יג וַיְהִי-עֶרֶב וַיְהִי-בֹקֶר יוֹם שְׁלִישִׁי
13 E fu sera e fu mattina, terzo giorno.
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
Ecco, che le acque che stanno in basso, quelle che non sono state rese salubri, addolcite, rese potabili dall’acqua di sopra, si sono raccolte nel mare salato. Così, la vita sarà possibile sulla terra per coloro che accolgono la rugiada divina, l’acqua dello spirito che scende dal cielo. Questi saranno come alberi e porteranno frutto. Ecco cosa ci dice il Salmo 1:
«Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, che non segue la via dei peccatori, non siede con gli schernitori, ma si compiace nella legge del Signore e medita la sua legge giorno e notte! È come un albero piantato vicino a un ruscello, che dà frutti a suo tempo e il suo fogliame non muore mai; tutto ciò che intraprende avrà successo, non è tale il destino dei malvagi. Ma sono come la paglia spazzata dal vento: al giudizio, i malvagi non si alzeranno, né i peccatori all’a riunione’assemblea dei giusti. Il Signore conosce la via dei giusti, ma la via dei malvagi andrà perduta.»
Così in questo salmo è descritto l’uomo giusto, che si è distinto dal malvagio, che si è separato dal male, unito a Dio per mezzo della fede, come una terra pronta ad essere fecondata dalla parola di Dio. Gesù stesso ci parla di questa terra che è pronta ad accogliere la fede e quindi a portare frutto, perché irrigata dallo Spirito di Dio stesso:
«Ascoltate dunque la parabola di colui che ha seminato. Tutti coloro che ascoltano la parola del regno e non [la] comprendono, viene il maligno e strappa via ciò che è stato seminato nei loro cuori; questo [è ciò che] è stato seminato lungo la strada. Ciò che è stato seminato su un terreno sassoso è colui che ascolta la parola e immediatamente, con gioia, la riceve: ma non ha radici in lui e dura solo un momento, una volta arrivata l’oppressione o la persecuzione a causa della parola, immediatamente viene a cadere. Ciò che è stato seminato tra i rovi è colui che ascolta la parola e le occupazioni del secolo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola e diventa incapace di portare frutto. Ciò che è stato seminato sulla buona terra è colui che ascolta la parola e comprende, questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta » (Matteo 13, 18-23)
L’albero che porta frutto è quindi l’immagine del giusto che porta frutto attraverso le sue opere. E portare frutto, compiere buone opere secondo il Vangelo significa accogliere il prossimo, come i rami di un albero accolgono molti uccelli, senza distinzioni, senza selezionare. Le braccia aperte di Cristo sulla croce offrono il suo amore e il suo perdono alla moltitudine. Ecco un’altra parabola di Gesù che usa l’immagine dell’albero:
«A che cosa è paragonabile il regno di Dio, a che cosa lo paragonerò? È paragonabile a un granello di senape che un uomo ha preso e gettato nel suo giardino. È cresciuto, è diventato un albero e gli uccelli del cielo hanno fatto il loro nido tra i suoi rami». (Luca 13, 19-20)
Ovviamente le buone opere portano buoni frutti e le cattive cattivi frutti, ogni seme secondo la sua specie. Ecco come Gesù parla dell’uomo ingannevole dallo spirito doppio:
«Diffidate dei falsi profeti che vengono a voi travestiti da pecore, mentre dentro sono lupi famelici. Li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie uva dalle spine o fichi dai cardi? Così ogni albero buono produce frutti buoni, e l’albero marcio produce frutti cattivi. Un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero marcio può produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Quindi li riconoscerete dai loro frutti. (Matteo 7, 15-20)
Ecco ancora immagini della natura che sono in grado di parlarci della realtà dello spirito, del regno dei cieli, perché questa natura è opera di Dio, manifestazione della sua gloria, dello scambio di amore trinitario che è in lui. È a partire dalla dinamica di questo amore che le immagini della natura possono parlarci delle nostre tappe spirituali. (Per altre parabole, leggere l’articolo Matteo 13 Le parabole del Regno).
- L’opera di Dio manifestata e compiuta nella persona di Gesù e nella Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo:
Naturalmente queste parabole e queste immagini della natura ci parlano anche di Gesù stesso, annunciano innanzitutto ciò che avrebbe compiuto per salvare gli esseri umani, i suoi figli. Vediamo come Gesù parla di sé nel momento in cui deve annunciare la sua morte e risurrezione agli apostoli che non capivano ancora cosa intendesse per risurrezione:
«Allora Gesù disse loro: “È giunta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. Amen, amen, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde; chi si distacca da essa in questo mondo la conserverà per la vita eterna.”» (Giovanni 12, 23-25)
Gesù sarebbe stato glorificato, cioè avrebbe mostrato a tutti la gloria di Dio, l’immensità del suo amore, accettando di dare la sua vita per amore, sulla croce, perché “non c’è amore più grande di colui che rimette la propria anima per coloro che ama” (Giovanni 15, 13). È lui il chicco di grano che è caduto dall’albero della croce, sepolto per fecondare la terra, l’umanità, e farla fruttificare. Così, dà l’esempio ai suoi discepoli dicendo che chi vuole conservare la propria vita per sé, egoisticamente, preservandola a scapito degli altri, perde la propria vita, perde la vita dello Spirito che è in lui perché si priva del legame fraterno d’amore che lo lega al prossimo. Mentre chi apre le braccia per accogliere il prossimo, come l’albero che allarga i suoi rami, troverà la felicità di Dio, la vita eterna nel dono della sua vita, nella comunione e nell’amore fraterno.
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
In questa terza fase, per chi si è aperto alla fede, alla luce ed è entrato in una relazione filiale con Dio, si tratta di preparare il terreno per portare frutto. È l’immagine della terra che è separata dalle acque salate del mare, per accogliere l’acqua del cielo, per essere fecondata, per far crescere l’erba, gli alberi e portare frutto.
Si tratta quindi di separarsi dall’agitazione e dalla confusione del mare del mondo, cioè di ciò che non è addolcito, guidato dallo spirito di amore di Dio e del prossimo. Separarsi dal mare dove regna la legge del più forte, dove il pesce più grande mangia il più piccolo. Il credente, quindi, affonda le sue radici nella preghiera, nel rapporto con Dio e si nutre della sua parola che è come l’acqua che scende dal cielo per fecondare la terra e non risale al cielo senza aver fatto portare frutto a questa terra che siamo (secondo la parola di Dio riportata dal profeta Isaia 55, 10-11). Il credente quindi affonda le sue radici nella fede, attraverso le buone opere, per resistere alle intemperie e portare frutto. Noi siamo la terra che deve essere arata per poter accogliere la fede come un seme che, una volta morto a tutto ciò che lo lega al male, potrà crescere e portare frutto nell’accoglienza e nel servizio al prossimo. E ognuno porterà frutto secondo il suo seme, secondo il rapporto di fede che lo lega a Dio, alla vita, al prossimo. Ecco come Gesù si rivolge a coloro che si preparano a seguirlo: «Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole camminare al mio seguito, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti, che vantaggio avrà un uomo nel guadagnare il mondo intero al prezzo della propria vita? Cosa potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni. Amen, vi dico: tra coloro che sono qui, alcuni non conosceranno la morte prima di aver visto il Figlio dell’uomo venire nel suo Regno.» (Matteo 16, 24-28).
4° GIORNO
יד וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים יְהִי מְאֹרֹת בִּרְקִיעַ הַשָּׁמַיִם לְהַבְדִּיל בֵּין הַיּוֹם וּבֵין הַלָּיְלָה וְהָיוּ לְאֹתֹת וּלְמוֹעֲדִים וּלְיָמִים וְשָׁנִים
14 E Elohim disse: «Siano dei luminari nello spazio dei cieli per separare il giorno dalla notte e siano segni per le stagioni, i giorni e gli anni.
טו וְהָיוּ לִמְאוֹרֹת בִּרְקִיעַ הַשָּׁמַיִם לְהָאִיר עַל-הָאָרֶץ וַיְהִי-כֵן
15 E che siano luminari nello spazio dei cieli per illuminare la terra, e così fu.
טז וַיַּעַשׂ אֱלֹהִים אֶת-שְׁנֵי הַמְּאֹרֹת הַגְּדֹלִים אֶת-הַמָּאוֹר הַגָּדֹל לְמֶמְשֶׁלֶת הַיּוֹם וְאֶת-הַמָּאוֹר הַקָּטֹן לְמֶמְשֶׁלֶת הַלַּיְלָה וְאֵת הַכּוֹכָבִים
16 E Elohim fece i due grandi luminari, il grande luminare per governare il giorno e il piccolo luminare per governare la notte e le stelle.
יז וַיִּתֵּן אֹתָם אֱלֹהִים בִּרְקִיעַ הַשָּׁמָיִם לְהָאִיר עַל-הָאָרֶץ
17 E Elohim diede loro nello spazio dei cieli d’illuminare la terra
יח וְלִמְשֹׁל בַּיּוֹם וּבַלַּיְלָה וּלְהַבְדִּיל בֵּין הָאוֹר וּבֵין הַחֹשֶׁךְ וַיַּרְא אֱלֹהִים כִּי-טוֹב
18 E governare il giorno e la notte e separare la luce dalle tenebre e Elohim vide che (questo è) buono.
יט וַיְהִי-עֶרֶב וַיְהִי-בֹקֶר יוֹם רְבִיעִי
19 E fu sera e fu mattina, quarto giorno.
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
Si è già parlato della luce nel primo giorno, ma la luce del primo giorno è una luce che sussiste al di fuori del mondo creato, è la luce del volto di Dio, la luce dello sguardo di Dio che si offre alle creature. È la luce della risurrezione. Le creature potranno davvero comprendere Dio e il mondo vedendo il suo amore per loro. Così i credenti potranno amare il prossimo come Dio lo ama, perché avranno riconosciuto l’amore di Dio. Diventeranno quindi un riflesso dell’amore di Dio in questo mondo, per amare ciascuno come Dio lo ama. Ecco cosa ci dice l’evangelista San Giovanni:
«Carissimi, ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora manifestato. Sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a lui, perché lo vedremo così com’è.» (1 Giovanni 3, 2-3)
Ecco cosa implica la visione di Dio: diventare simili a lui. Riconoscere con quale amore siamo amati ci riempie a nostra volta di amore, di gratitudine e riconoscenza. Così, vedendo come Dio ha amato ciascuno, anche noi potremo amare ciascuno come Dio lo ama.
«Quanto a noi, noi amiamo perché Dio stesso ci ha amati per primo». (1 Giovanni 4, 19).
E San Paolo:
«Infatti, la nostra conoscenza è parziale, le nostre profezie sono parziali. Quando verrà il compimento, ciò che è parziale sarà superato. Quando ero bambino, parlavo come un bambino, pensavo come un bambino, ragionavo come un bambino. Ora che sono un uomo, ho superato ciò che era proprio del bambino. Attualmente vediamo in modo confuso, come in uno specchio; quel giorno vedremo faccia a faccia. Attualmente la mia conoscenza è parziale; quel giorno conoscerò perfettamente, come sono stato conosciuto. Ciò che rimane oggi è la fede, la speranza e la carità; ma la più grande delle tre è la carità. (1 Corinzi 9-13).
«Filippo gli disse: “Signore, mostraci il Padre; questo ci basta”. Gesù gli rispose: “È da tanto tempo che sono con voi, e tu non mi conosci, Filippo! Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi dunque che io sono nel Padre e che il Padre è in me! Le parole che vi dico, non le dico da me stesso; il Padre che dimora in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non credete a me, credete almeno a causa delle opere stesse. Amen, amen, vi dico: chi crede in me, compirà le opere che io compio. Ne farà anche di più grandi, perché io vado al Padre, e tutto ciò che chiederete nel mio nome, lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio. (Giovanni 14, 8-13).
Vedere Dio, il suo amore per noi in Gesù Cristo, implica quindi diventare simili a lui, amare come lui ci ama, perché vedremo il nostro prossimo con un altro sguardo, lo sguardo di chi gli ha dato la vita e vuole condurlo alla perfezione dell’amore, lo sguardo di chi vede in ciascuno un fratello, una sorella, perché tutti riceviamo la vita dalla stessa fonte d’amore e siamo invitati a vivere di questo amore. Così si realizza la promessa fatta ad Abramo:
«Lo giuro per me stesso, oracolo del Signore: poiché tu hai fatto questo, poiché non mi hai rifiutato il tuo figlio, il tuo unico, ti colmerò di benedizioni, renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo» (Genesi 22, 16-17).
Infatti, Abramo, che sarebbe stato pronto a sacrificare suo figlio, ha creduto in questa sorgente di vita, capace di restituirgli il figlio dopo la morte. Infatti, Isacco, il figlio di Abramo, era nato in seguito all’intervento divino, quando Abramo e sua moglie erano anziani.
«Ecco perché [si diventa eredi] per fede: è una grazia, e la promessa rimane ferma per tutti i discendenti di Abramo, non per coloro che si attengono solo alla Legge, ma per coloro che si attengono anche alla fede di Abramo, lui che è il padre di noi tutti. È proprio quello che è scritto: «Ti ho fatto padre di una moltitudine di popoli». È nostro padre davanti a Dio, nel quale ha creduto, Dio che dà la vita ai morti e che chiama all’esistenza ciò che non esiste. Sperando contro ogni speranza, ha creduto; così è diventato padre di una moltitudine di popoli, secondo questa parola: «Questa sarà la discendenza che avrai!». Non ha vacillato nella fede quando, quasi centenario, ha considerato che il suo corpo era già segnato dalla morte e che Sara non poteva più partorire. Di fronte alla promessa di Dio, non ha esitato, non ha mancato di fede, ma ha trovato la sua forza nella fede e ha reso gloria a Dio, perché era pienamente convinto che Dio ha il potere di compiere ciò che ha promesso. E per questo gli fu concesso di essere giusto. Dicendo che gli fu concesso, la Scrittura non si interessa solo a lui, ma anche a noi, poiché ciò ci sarà concesso se crediamo in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, consegnato per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione.» (Lettera di San Paolo ai Romani 4, 16-25).
È quindi attraverso la fede nella sorgente della vita, in Colui che è in grado di risuscitare i morti, che si diventa discendenza di Abramo, luce per tutti i popoli, stelle per illuminare la terra:
«Non sarai più chiamato con il nome di Abram, il tuo nome sarà Abraham, perché io faccio di te il padre di una moltitudine di popoli». (Genesi 17, 5)
Qui la parola popolo traduce l’ebraico goyim (גּוֺיִם) che indica gli altri popoli non ebrei, in greco nella Bibbia è tradotto con la parola éthnē (ἔθνη) letteralmente etnie, che significa tutti i popoli, le nazioni della terra.
Quindi, secondo il linguaggio biblico, è la fede e la testimonianza della fede che è designata dall’immagine dei luminari celesti. Il sole diventa così l’immagine di Cristo che porta la sua luce sulla terra e nella notte è la luna che illumina la terra riflettendo la luce del sole e quando la luna sembra essere inghiottita dall’oscurità, saranno le stelle a servire da punto di riferimento. La luna diventa quindi immagine della Chiesa, del corpo di Cristo, di tutti coloro che offriranno la propria vita per amore del prossimo, riflesso dello Spirito di Dio che abita nei nostri cuori, riflesso dell’amore di Cristo che ha dato la propria vita per noi. È quando il male, le tenebre sembrano trionfare contro il sole di giustizia, quando i credenti sono perseguitati, che la Chiesa, luna, sembra essere inghiottita dalle tenebre, ma è allora che le stelle brillano di più. Le stelle diventano quindi l’immagine dei testimoni della fede, di coloro che sono capaci di offrire la propria vita per amore del prossimo, immagine di coloro che hanno fame e sete di giustizia. Allora, il loro esempio servirà ai popoli per trovare la via della vittoria sul male.
Così si esprime San Paolo paragonando coloro che fanno la volontà di Dio, i suoi figli, alle stelle:
«Perché è Dio che agisce per produrre in voi la volontà e l’azione, secondo il suo progetto benevolente. Fate tutto senza recriminare e senza discutere; così sarete irreprensibili e puri, voi che siete figli di Dio senza macchia in mezzo a una generazione tortuosa e perversa, dove brillate come le stelle nell’universo, mantenendo salda la parola della vita». (Lettera ai Filippesi 2, 13-16).
- L’opera di Dio manifestata e compiuta nella persona di Gesù e nella Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo:
La promessa di Dio ad Abramo si sarebbe adempiuta in Gesù. Infatti, inizialmente il popolo ebraico aveva interpretato questa promessa come rivolta ai figli nati dal sangue e dalla carne di Abramo. Così, quando suo nipote Giacobbe ebbe dodici figli, li benedisse e questi formarono le dodici tribù d’Israele, ma la promessa fatta ad Abramo di essere il padre di una moltitudine di popoli, di una discendenza numerosa come le stelle, si sarebbe adempiuta attraverso la discendenza di Giuda, figlio di Giacobbe, poiché nel tribù di Giuda nacque Davide e poi Gesù. Così, nella Bibbia, Balaam profetizza riguardo al Messia che nascerà nella discendenza di Giacobbe:
«Questo eroe, lo vedo – ma non per ora – lo intravedo – ma non da vicino: un astro sorge, nato da Giacobbe, uno scettro si erge, nato da Israele». (Numeri 24, 17)
Infatti, Gesù, nato dalla discendenza di Giacobbe e Davide, ha creato un nuovo popolo a cui si appartiene per fede e non più per nascita, un popolo che riunisce come fratelli e sorelle moltitudini di persone di tutte le lingue, popoli e nazioni.
Questo nuovo popolo è contemplato da San Giovanni nella visione che gli svela il regno di Dio, la vittoria dell’agnello:
«Dopo queste cose vidi: ed ecco una grande folla, che nessuno poteva contare, una moltitudine di tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue. Stavano in piedi davanti al Trono e davanti all’Agnello, vestiti di vesti bianche, con palme in mano.» (Apocalisse 7, 9)
E all’inizio del Vangelo di Giovanni, si ricorda:
«A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.» (Giovanni 1, 12-13)
Infatti, Gesù invita a una nuova nascita, a riconoscere con fede che ogni vita viene da Dio, che siamo una moltitudine di fratelli e sorelle che riceviamo la vita dalla stessa sorgente, questo è il significato del battesimo, la nascita a una nuova vita in cui formiamo una nuova famiglia. Queste sono le stesse parole di Gesù:
«In verità, in verità vi dico: se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito» (Giovanni 3, 5-6).
Così, questa nuova nascita potrà riunire in un’unica famiglia persone di ogni origine, popoli e nazioni che riconosceranno in ogni essere umano, credente o non credente, un fratello e una sorella. Così, ognuno potrà essere una luce, una stella per le persone di ogni origine, etnia, e non solo per coloro che sono nati da una filiazione legata alla carne.
Ecco il significato della stella avvistata da coloro che scrutavano il cielo in Oriente alla nascita di Gesù:
«Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo di re Erode il Grande. Ora, ecco che dei magi venuti dall’Oriente arrivarono a Gerusalemme e chiesero: “Dov’è il re dei Giudei che è appena nato? Abbiamo visto il suo astro in Oriente e siamo venuti a prostrarci davanti a lui.” (Matteo 2, 1-2)
Allo stesso modo, quando Gesù fu presentato al tempio da Maria e Giuseppe dopo la sua nascita, un vecchio, chiamato Simeone, lo prese in braccio e profetizzò:
«Ora, o Sovrano Maestro, puoi lasciare che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola. Perché i miei occhi hanno visto la salvezza che preparavi davanti ai popoli: luce che si rivela alle nazioni e dà gloria al tuo popolo Israele». (Luca 2, 29-32)
Gesù, infatti, offrirà la sua vita, il suo amore a tutti i popoli e manderà i suoi discepoli ad annunciare a tutte le nazioni che il Regno di Dio è vicino, che possiamo vivere come fratelli e sorelle sulla terra come in cielo perché tutti riceviamo la vita dalla stessa sorgente.
E Gesù stesso dice nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse:
«Io, Gesù, ho mandato il mio angelo a portarvi questa testimonianza riguardo alle Chiese. Io sono il germoglio, il discendente di Davide, la stella splendente del mattino.» (Apocalisse 22, 16).
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
Dio separa il giorno dalla notte, ci fa passare dalle tenebre alla luce attraverso la sua vittoria sul male e sulla morte, la vittoria dell’amore. Questa vittoria sarebbe stata realizzata da Gesù sulla croce, dove ha offerto la sua vita per la moltitudine:
«Poi, avendo preso un calice e reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza, versato per la moltitudine in remissione dei peccati”. (Matteo 26, 26-27)
Ma prima Gesù aveva già mostrato agli apostoli che in lui si trova la sorgente della vita, quando risuscitò Lazzaro che era morto da quattro giorni. Infatti, quando fu annunciato a Gesù che Lazzaro era malato, Gesù non partì subito per andarlo a visitare, ma aspettò due giorni, per arrivare a casa sua il quarto giorno dalla sua morte, per significarci che in questo quarto giorno, lui che è la vita, può strappare le sue creature al potere delle tenebre e della morte e riportarle alla vita, alla piena luce. Così, forma la fede dei suoi discepoli affinché possano portare questa luce di speranza al mondo. Vediamo il racconto della risurrezione di Lazzaro:
«Quando seppe che era malato, rimase ancora due giorni nel luogo dove si trovava. Poi, dopo questo, disse ai discepoli: “Torniamo in Giudea”. I discepoli gli dissero: «Rabbi, proprio di recente i Giudei, là, cercavano di lapidarti, e tu ci ritorni?». Gesù rispose: «Non ci sono dodici ore in un giorno? Chi cammina durante il giorno non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma chi cammina di notte inciampa, perché la luce non è in lui.» Dopo queste parole, aggiunse: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io andrò a tirarlo fuori da questo sonno». I discepoli allora gli dissero: «Signore, se si è addormentato, sarà salvo». Gesù aveva parlato della morte; loro pensavano che parlasse del riposo del sonno. Allora disse loro apertamente: «Lazzaro è morto, e io mi rallegro di non essere stato lì, per causa vostra, affinché crediate. Ma andiamo da lui! » Tommaso, detto Didimo (cioè Gemello), disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!» Al suo arrivo, Gesù trovò Lazzaro nel sepolcro già da quattro giorni.» (Giovanni 11, 6-17)
In questo racconto vediamo l’importanza della successione dei giorni, per evidenziare che l’opera di Gesù ci rivela l’opera della creazione. Gesù, così, forma il credo dei suoi discepoli nella risurrezione, fa loro comprendere la differenza tra la vita e la morte. Si può essere vivi sulla terra, ma essere morti e nelle tenebre se non riconosciamo la vera fonte della vita, se non entriamo in una relazione fraterna con i nostri fratelli e sorelle del mondo intero e non assaporiamo la gioia di amarci gli uni gli altri. Così, Gesù non dice che Lazzaro, morto agli occhi degli uomini, è veramente morto, dice che si è addormentato, che riposa, che è entrato nel riposo di Dio, quel riposo che attende l’essere umano quando si è riconciliato con Colui che gli ha dato la vita, quando ha rimesso la sua vita nelle sue mani, con fiducia. Questa sarà l’ultima tappa del cammino di fede, quella che ci farà entrare nel settimo giorno, il giorno del riposo di Dio dalla sua opera, il giorno in cui l’opera di salvezza degli esseri umani sarà compiuta.
Vediamo quindi il seguito del racconto della risurrezione di Lazzaro:
«Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Ma ora so che tutto ciò che chiederai a Dio, Dio te lo concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Marta riprese: «So che risorgerà nella risurrezione, nel giorno finale». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi questo?». Ella rispose: «Sì, Signore, io credo: tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, tu sei colui che viene nel mondo». (Giovanni 11, 21-27)
E dopo l’arrivo dell’altra sorella di Lazzaro, Maria, Gesù, dopo aver pianto con loro, andò al sepolcro:
«Gesù, di nuovo preso dall’emozione, arrivò al sepolcro. Era una grotta chiusa da una pietra. Gesù disse: «Togliete la pietra”. Marta, la sorella del defunto, gli disse: «Signore, già puzza; è lì da quattro giorni». Allora Gesù disse a Marta: «Non te l’ho detto? Se credi, vedrai la gloria di Dio». Quindi fu tolto il masso. Allora Gesù alzò gli occhi al cielo e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai esaudito. Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre; ma lo dico a causa della folla che mi circonda, perché credano che tu mi hai mandato». Dopo di che, gridò con voce forte: «Lazzaro, vieni fuori!» E il morto uscì, con i piedi e le mani legati da bende, il viso avvolto in un sudario. Gesù disse loro: «Slegatelo e lasciatelo andare». (Giovanni 11, 38-44)
Purtroppo, dopo la risurrezione di Lazzaro, l’invidia e l’odio contro Gesù divennero ancora più forti, il Vangelo ci dice:
«Da quel giorno decisero di ucciderlo.» (Giovanni 11, 53)
Le tenebre cercano di offuscare la luce della risurrezione. Allo stesso modo, quando Giuda lascia la cena con Gesù durante l’ultima cena, il Vangelo ci ricorda che entrò nella notte:
«Allora Giuda prese il boccone e subito uscì. Ora, era notte. Quando fu uscito, Gesù disse: “Ora il Figlio dell’uomo è glorificato, e Dio è glorificato in lui”» (Giovanni 13, 30-31).
Giuda entra nella notte, ma Gesù annuncia che in questa notte, in cui l’uomo è accecato, egli risplenderà della gloria di Dio, cioè rivelerà tutto l’amore di Dio sulla croce. Sarà la stella di luce che brilla nella notte. Quando le tenebre credono di aver vinto la luce, i corpi celesti brillano ancora di più e la luna ricomincia a crescere.
Allo stesso modo, l’odio, la rivalità, che imprigionano gli esseri umani sembrano regnare sulla terra, come le tenebre che inghiottono la luna. Questa luna sarà l’immagine della Chiesa, del corpo di Cristo, di tutti coloro che, come stelle che risplendono nella notte, portano la testimonianza della risurrezione al mondo, a costo della loro vita, se necessario. Martiri, testimoni della resurrezione.
Così, è il perdono di Dio che alla fine vince l’ostinazione e l’incredulità, quando Gesù avrà mostrato il suo volto di misericordia anche verso i suoi nemici, i suoi persecutori.
Questo miracolo ci mostra il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce. Il morto, Lazzaro, ha le mani e i piedi legati e il viso coperto. È l’immagine della morte spirituale di ognuno di noi, quando siamo legati all’incatenamento delle violenze, quando rispondiamo al male con il male, all’offesa con l’offesa. Gesù è venuto per liberarci da tutto ciò che ci tiene prigionieri, da tutto ciò che ci incatena, ed è anche venuto per togliere il velo dal nostro volto che ci impediva di vedere la fonte della vita che ci unisce tutti gli uni agli altri. Ci rivela che siamo tutti figli di Dio, fratelli e sorelle, che in lui si trovano la risurrezione e la vita. Invierà così gli apostoli ad essere luce per tutti i popoli della terra:
«Andate in tutto il mondo. Proclamate la buona novella a tutta la creazione». (Marco 16, 15)
«Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li manterrete, saranno mantenuti”» (Giovanni 20, 22-23).
«In verità vi dico: tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo, e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo». (Matteo 18, 18)
Saranno così luce del mondo, come la luna che riceve la sua luce dal sole. Coloro che erano nelle tenebre della morte hanno conosciuto la luce.
«Lasciò Nazaret e andò ad abitare a Cafarnao, città situata sul mare di Galilea, nei territori di Zabulon e di Nèftali. Questo perché si adempisse la parola pronunciata dal profeta Isaia: Paese di Zabulon e paese di Nèftali, strada del mare e paese al di là del Giordano, Galilea dei popoli! Il popolo che abitava nelle tenebre ha visto una grande luce. Su coloro che abitavano nella paese e nell’ombra della morte, si è levato un sole. Da quel momento, Gesù cominciò a proclamare: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». (Matteo 4, 13-17)
Un’altra immagine importante di questo nuovo popolo di fratelli e sorelle ci è offerta da San Giovanni che racconta la sua visione nel libro dell’Apocalisse, visione della vittoria della luce sulle tenebre, vittoria di Cristo e della moltitudine dei santi che sono stati un riflesso della sua gloria in questo mondo, come tante stelle.
«Un grande segno apparve nel cielo: una Donna, con il sole come manto, la luna sotto i piedi e sulla testa una corona di dodici stelle.» (Apocalisse 12, 1)
Questa donna rappresenta la Chiesa, popolo di Dio, assemblea di coloro che sono chiamati a vivere la pienezza della vita, dell’amore di Dio, riunendo uomini e donne di tutte le lingue, popoli e nazioni. Ecco sempre in questa visione della pace e della vittoria dell’agnello di Dio, Gesù che si è immolato per tutti noi, le tappe dei primi giorni della creazione: lui che è la luce, abbevera di vita il mondo, come l’agnello immolato che ha versato il suo sangue perché il mondo abbia la vita. Questo vita accolta dagli uomini è rappresentata da un albero che porta frutto dodici volte e che offre la vita alle nazioni, ai popoli del mondo. Coloro che contemplano il volto di Dio sono illuminati da lui e non hanno più bisogno di una lampada o di un’altra luce perché hanno rivestito la luce:
«E l’angelo mi mostrò il fiume dell’acqua della vita, limpido come cristallo, che scaturisce dal trono di Dio e del suo Figlio. In mezzo alla piazza della città e lungo le due rive del fiume si trova un albero di vita che produce dodici raccolti, ogni mese dà il suo frutto e le foglie dell’albero servono come medicina per i popoli. Ogni maledizione sarà scomparsa. Il trono di Dio e dell’Agnello sarà nella città, e i servitori di Dio lo adoreranno; vedranno il suo volto e il suo nome sarà sulla loro fronte. La notte sarà scomparsa, non avranno più bisogno della luce di una lampada né della luce del sole, perché il Signore Dio li illuminerà; regneranno per i secoli dei secoli. (Apocalisse 22, 1-5).
Ecco quindi spiegata l’immagine della donna che ha il sole come mantello, la luna sotto i piedi e la corona di stelle. La luna che riflette la luce del sole nella notte del mondo, la luna che cresce ogni volta che le tenebre sembrano vincere, le stelle che brillano nell’oscurità testimoniando l’amore di Dio per i suoi figli. Tutto questo ci ricorda i primi quattro giorni, queste tappe che ci fanno passare dalla notte al giorno, attraverso la luce, l’acqua, l’albero, le stelle.
5° GIORNO
כ וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים יִשְׁרְצוּ הַמַּיִם שֶׁרֶץ נֶפֶשׁ חַיָּה וְעוֹף יְעוֹפֵף עַל-הָאָרֶץ עַל-פְּנֵי רְקִיעַ הַשָּׁמָיִם
20. E Elohim disse: «Che le acque si muovano con il movimento di anime viventi e che gli uccelli volino sulla terra sulle facce dello spazio dei cieli.
כא וַיִּבְרָא אֱלֹהִים אֶת-הַתַּנִּינִם הַגְּדֹלִים וְאֵת כָּל-נֶפֶשׁ הַחַיָּה הָרֹמֶשֶׂת אֲשֶׁר שָׁרְצוּ הַמַּיִם לְמִינֵהֶם וְאֵת כָּל-עוֹף כָּנָף לְמִינֵהוּ וַיַּרְא אֱלֹהִים כִּי-טוֹב
21 E Dio creò i grandi mostri marini e tutte le anime viventi che si muovono [senza membra] e proliferano nelle acque, di diverse specie, e tutti gli uccelli alati di diverse specie, e Elohim vide che (questo è) buono.
כב וַיְבָרֶךְ אֹתָם אֱלֹהִים לֵאמֹר פְּרוּ וּרְבוּ וּמִלְאוּ אֶת-הַמַּיִם בַּיַּמִּים וְהָעוֹף יִרֶב בָּאָרֶץ
E li benedisse, dicendo: «Portate frutto e moltiplicatevi e riempite le acque nei mari e che gli uccelli si moltiplichino sulla terra.»
כג וַיְהִי-עֶרֶב וַיְהִי-בֹקֶר יוֹם חֲמִישִׁי
23 E fu sera e fu mattina, quinto giorno.
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
Secondo le parole della Bibbia, gli animali sono anime viventi, cioè possiedono un principio vitale, anche l’uomo è un’anima vivente, un animale. Questo principio vitale rivela anche un istinto proprio ad ogni specie animale, un istinto che lo mantiene in vita, che assicura la sua sopravvivenza, il suo modo di nutrirsi, ecc. Ora, come vedremo il giorno seguente, questo principio vitale, questa anima vivente può ricevere il respiro di Dio, spirito che orienterà gli esseri umani verso le realtà celesti ed eterne, che li guiderà dove potranno trovare la loro vera felicità. Nel secondo capitolo della Genesi, quando Dio presenta ad Adamo tutti i tipi di animali, si dice che Adamo non trovò tra loro un aiuto che potesse stare come di fronte (כְּנֶגְדּֽוֹ kenegdo) a lui. Ora, questa parola neghed indica ciò che è di fronte a noi, davanti a noi. L’aiuto necessario all’essere umano è quello che si trova davanti a lui, di fronte a lui, in modo che possa seguirlo ed essere così alla presenza di Dio. Dio è amore, relazione, lo Spirito di Dio è la relazione d’amore che ci unisce gli uni agli altri. Bisogna essere di fronte a qualcuno, trovarsi in sua presenza, averlo davanti a noi per essere in relazione con lui. Allora, questa relazione diventa per noi un vero aiuto che ci introduce alla presenza di Dio:
«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutto il tuo spirito. Questo è il grande e il primo comandamento. E il secondo è simile a questo: amerai il tuo prossimo come te stesso» (Matteo 22, 37-39).
Ora, la parola entolē (ἐντολή) che traduciamo con comandamento è formata dalla parola télos, scopo, perfezione, e indica ciò che dobbiamo compiere, in cosa consiste il nostro scopo. Non si tratta di un ordine arbitrario, ma di ciò che ci conduce alla perfezione, a realizzare il nostro scopo. Nell’Antico Testamento, in ebraico i comandamenti sono semplicemente chiamati le “parole” di Dio, quelle che esprimono il suo lógos, il suo ragionamento, il suo desiderio di condurci a lui, attraverso l’amore per lui e per il nostro prossimo.
Non possiamo vivere l’amore e quindi sperimentare la gioia di Dio se non amando il nostro prossimo, colui che ci sta di fronte, davanti a noi e ci rimanda alla presenza di Dio, ci permette di vivere la nostra relazione d’amore con Dio. Attraverso l’amore che portiamo al nostro prossimo, onoriamo la presenza di Dio, il suo stesso soffio, respiro vitale che lo anima. L’anima vivente diventa così l’immagine dell’anima che è in grado di ricevere il soffio divino, lo Spirito di Dio, la Sua stessa vita, Spirito che Dio infonderà nell’essere umano, per condurlo alla piena somiglianza con Lui attraverso l’esperienza dell’amore. (Vedi Genesi 2, 7). Gli animali sono quindi un’immagine di questa anima vivente che deve essere condotta alla piena luce dell’amore di Dio. Coloro che vivono nelle acque salate del mare devono essere pescati e condotti verso le dolci acque dello Spirito di Dio. Il mare e le sue onde che possono inghiottirci sono un’immagine di questo mondo in cui regna l’oscurità, dove il pesce più grande mangia quello più piccolo. Questa legge e questo istinto hanno bisogno di ricevere la luce, devono essere orientati verso la vera fonte della vita, devono essere condotti verso le acque tranquille del regno di Dio. Lo stesso vale per gli uccelli che vivono nel cielo ma che si orientano verso il cibo terrestre. I testi biblici dividono gli animali in puri e impuri, cioè quelli che hanno una condotta da cui possiamo trarre esempio e quelli che hanno una condotta riprovevole (Levitico 11). Tra gli uccelli impuri per eccellenza, quelli che si nutrono di cadaveri o i rapaci che mangiano i loro simili. Più delicati e inspiranti sono gli uccelli che si nutrono di semi.
In questo modo, è facile per noi comprendere e analizzare il nostro comportamento giudicando il comportamento di un animale piuttosto che giudicare una persona di cui non sappiamo tutto. In questo modo, possiamo giudicare le azioni e non le persone. “Non giudicate”, ci dice Gesù (Matteo 7, 1). Utilizziamo quindi nel nostro vocabolario nomi di animali che indicano comportamenti riprovevoli o indegni: ad esempio il maiale per la sua sporcizia, i rapaci che attaccano i piccoli, gli avvoltoi e coloro che si nutrono di cadaveri, approfittatori della disgrazia altrui, i serpenti che attirano nelle loro trappole, gli squali per la loro violenza, le piovre con l’estensione dei loro tentacoli che ci avvolgono da ogni parte, gli animali che vivono sottoterra e sono spesso ciechi o si nutrono di cibo ripugnante. Tutte queste specie di animali impuri sono elencate nel capitolo 11 del libro del Levitico.
Ma possiamo anche trovare tra gli animali quelli che ci toccano per la loro delicatezza, fedeltà, purezza o innocenza. Prendiamo ad esempio l’agnello e la colomba. Il termine agnello indica la vittima innocente, così Gesù, il Messia, sarà chiamato l’agnello di Dio, la vittima innocente che è stata condotta al macello senza proferire parola (Isaia 53, 7 e Giovanni 1, 29). La colomba, di cui si lodano la bellezza degli occhi e la fedeltà, ma che emette un lamento, è spesso presa come esempio nella Bibbia. La colomba fa il suo nido nella fessura della roccia, ma la roccia in cui Mosè si riparò per vedere Dio che gli passava davanti è un’immagine di Cristo, è lui la nostra roccia, è dalla suo fianco aperto che riceviamo la vita, proprio come il popolo nel deserto fu abbeverato da una sorgente che Mosè fece sgorgare dalla roccia colpendola con il suo bastone. Si dice quindi che la colomba ha begli occhi perché ha saputo vedere e trovare la sua roccia, quella in cui può ripararsi. È un’immagine del cristiano che trova rifugio in Gesù Cristo, ma è anche un’immagine dello Spirito Santo stesso che aleggiava su Gesù durante il suo battesimo (Matteo 3, 16). Infatti, già all’inizio del libro della Genesi, lo spirito di Dio è come un uccello che dispiega le ali sopra le acque. La colomba, come ogni uccello e come la gallina, è un’immagine della tenerezza della madre quando cova i suoi piccoli e infonde in loro il suo amore, il suo calore vitale. La colomba emette anche un grido che suona come un lamento e la Bibbia ci dice che questo grido ricorda quello di Rachele che piange la morte dei suoi figli. I pesci sono un’immagine della fecondità, di ciò che può moltiplicarsi in quantità molto grandi, ma anche di ciò che sarà trafitto, arrostito, sacrificato e di cui ci si potrà nutrire, come di un cibo puro e delicato. Gesù moltiplicherà i pesci e si nutrirà di pesce alla griglia. I primi cristiani chiameranno Gesù il pesce, in greco ichtus, perché con le iniziali di questa parola potranno dire i suoi attributi (I per Iesus, Ch per Christos, T per Théos, Dio, ‘U per ‘Uyos, figlio, S per Sōtēr, Salvatore ovvero Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore). E questo pesce che vive nelle dolci acque del lago formato dalle acque del Giordano dove Gesù fu battezzato, ci dice anche che gli esseri umani che sono stati pescati con le reti della buona novella della parola di Dio e strappati dalle acque salate, sono stati condotti alla fonte di acqua viva e hanno trovato una nuova vita attraverso il battesimo. I primi cristiani dicevano: “Noi siamo i piccoli pesci che hanno trovato la vita nell’acqua dello Spirito e dobbiamo rimanere nello Spirito per rimanere in vita, piccoli pesci al seguito di Cristo”. Cristo è il pesce che si dona come cibo e moltiplica la vita attraverso le acque del battesimo.
- L’opera di Dio manifestata e compiuta nella persona di Gesù e nella Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo:
Così, sia nel mare che nel cielo vediamo anime viventi che hanno bisogno di trovare la via verso la luce, verso l’amore di Dio e del prossimo.
Così Gesù trasformerà i suoi discepoli in pescatori di uomini per strappare gli esseri umani alle tenebre e condurli verso le dolci acque dello spirito d’amore di Dio, per metterli in relazione fraterna d’amore gli uni con gli altri, questo è il regno di Dio: gli uni al servizio degli altri per la gioia reciproca.
Come gli uccelli, gli esseri umani sono invitati a cercare le realtà celesti. Ecco il linguaggio usato da San Paolo per parlarci del passaggio dalle tenebre della morte alla luce della risurrezione, da questa terra al cielo dove dimora il Padre:
«Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le realtà di lassù: è lì che è Cristo, seduto alla destra di Dio. Pensate alle realtà di lassù, non a quelle della terra. Infatti, siete passati attraverso la morte, e la vostra vita rimane nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo apparirà, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate dunque morire in voi ciò che appartiene alla terra: dissolutezza, impurità, passione, desiderio cattivo e questa sete di possedere, che è idolatria.» (Colossesi 3, 1-5)
Ecco di cosa dobbiamo liberarci per essere ricolmi della bontà e della felicità di Dio:
«Ma ora anche voi liberatevi di tutto questo: ira, sdegno, cattiveria, insulti, parole grossolane uscite dalla vostra bocca. Non ci siano più menzogne tra di voi: avete eliminato l’uomo vecchio che era in voi e le sue azioni, e vi siete rivestiti dell’uomo nuovo che, per conformarsi all’immagine del suo Creatore, si rinnova continuamente in vista della piena conoscenza. Così, non c’è più il Greco e il Giudeo, il circonciso e l’incirconciso, non c’è più il Barbaro o lo Scita, lo schiavo e l’uomo libero; ma c’è Cristo: è tutto e in tutti. Poiché siete stati scelti da Dio, poiché siete stati santificati, amati da lui, rivestitevi di tenerezza e compassione, di bontà, umiltà, dolcezza e pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda se avete qualcosa da rimproverarvi. Il Signore vi ha perdonato: fate lo stesso. Sopra tutte queste cose abbiate l’amore, che è il legame perfetto. E che regni nei vostri cuori la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati, voi che formate un solo corpo. Vivete nella gratitudine.» (Colossesi 3, 8-15)
Ora, è molto importante sapere che questo passaggio non avviene al momento della nostra morte, sarebbe troppo tardi, si tratta di essere strappati fin da ora alle tenebre dell’ignoranza del dono di Dio, di riconoscere fin da ora il suo amore per noi e di passare così tramite la fede a questa nuova vita in cui viviamo come fratelli e sorelle. San Paolo ci ricorda che è ora che siamo passati dalla morte alla vita e risorti con Cristo, è ora che rivestiamo l’uomo nuovo. Tutto questo è ben significato dai gesti del rituale del battesimo in cui si passa attraverso l’acqua, dove si riceve la sorgente della vita, l’unzione dello Spirito che penetra profondamente nello spirito dell’uomo, l’abito bianco che annuncia la nascita a una nuova vita, il perdono dei peccati, e la candela, la luce che permette di riconoscere la presenza di Dio in ciascuna delle sue creature, di conoscerle in modo diverso attraverso l’amore di Dio e di amarle in modo diverso, di vedere in ognuno ciò che è buono, bello, opera di Dio.
«Conducete, dunque, la vostra vita in Cristo Gesù, il Signore, così come l’avete ricevuto. Radicatevi in lui, costruitevi su di lui, saldi nella fede, come vi è stato insegnato, abbondate in azioni di grazie. Fate attenzione a coloro che vogliono farvi loro preda con una filosofia vuota e ingannevole, fondata sulla tradizione degli uomini, sulle forze che governano il mondo, e non su Cristo. Perché in lui, nel suo stesso corpo, abita tutta la pienezza della divinità. In lui siete pienamente colmati, perché egli domina tutte le potenze dell’universo. In lui avete ricevuto una circoncisione che non è quella praticata dagli uomini, ma quella che realizza il completo spogliamento del vostro corpo di carne; tale è la circoncisione che viene da Cristo. Nel battesimo, siete stati messi nella tomba con lui e siete risorti con lui per mezzo della fede nella forza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. Eravate morti, perché avevate commesso delle colpe e non avevate ricevuto la circoncisione nel vostro corpo. Ma Dio vi ha dato la vita con Cristo: ci ha perdonato tutte le nostre colpe. Ha cancellato il biglietto del debito che ci opprimeva a causa delle prescrizioni legali che pesavano su di noi: lo ha annullato inchiodandolo alla croce.» (Colossesi 2, 6-14)
Dio vede «che buono»: ogni giorno, ogni passaggio dalle tenebre alla luce, il racconto si conclude con questa affermazione, in ebraico kiy-ṭov (כִּי-טוֹב). Ora, la congiunzione kiy indica spesso un motivo, un «perché» o semplicemente un «che». La parola “ṭov” indica ciò che è buono. Dio vede e contempla in anticipo ciò che è buono e anche perché è buono. Infatti, potremmo dire che essere nelle tenebre o in acque dove gli animali grandi mangiano quelli piccoli, ecc., non è una cosa buona. Tuttavia, qui vediamo il piano di Dio e come può portare tutto al bene, al buono. Si tratta infatti del passaggio dalle tenebre alla luce, dall’ignoranza alla contemplazione della bontà di Dio, si tratta di aprire gli occhi alla bellezza a cui siamo chiamati. Questo passaggio è ben rappresentato nel Vangelo, nella Settimana Santa, nel momento in cui Gesù si prepara a completare la sua opera di salvezza, dando la sua vita, offrendo la sua vita per la salvezza del mondo, il Vangelo dice:
«Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, Gesù, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.» (Giovanni 13, 1)
Amare fino alla fine (εἰς τέλος eis télos), fino alla realizzazione, al completamento, alla perfezione, dove le sue parole, i suoi comandamenti o meglio le sue prescrizioni (entolés) vogliono condurci, alla pienezza del suo amore.
Così, in questo versetto della Genesi (1:21), Dio contempla l’opera compiuta, attraverso la quale ci conduce ad assaporare l’immensità della sua bontà e della sua bellezza, la bellezza del regno in cui tutti saremo reciprocamente nell’ammirazione gli uni degli altri, al servizio gli uni degli altri come membra di uno stesso corpo. Dio contempla qui il cammino che ci conduce da questa terra al Padre, e questo annuncia anche l’opera di Cristo, immagine di Dio che compie il suo volere di condurci al suo seguito verso la felicità del cielo, nel regno di Dio Padre nella gratitudine. Allora anche noi potremo vedere quanto tutto questo è buono, quanto l’amore di Dio ci ha condotto a lui, offrendoci la sua vita, al prezzo della sua vita. Contempleremo la sua bontà in ognuno e saremo colmi di gioia.
Gesù esorta gli apostoli a addolcire le acque salate del mare con la loro presenza, saranno come pesci, come Gesù stesso. Saranno pastori come Gesù e condurranno verso le acque che danno riposo, che placano. Ecco l’antico salmo 22:
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su prati di erba fresca mi fa riposare. Mi conduce verso acque tranquille e mi fa rivivere; mi guida per il giusto cammino per l’onore del suo nome. Se attraverso i dirupi della morte, non temo alcun male, perché tu sei con me: il tuo bastone mi guida e mi rassicura. Tu prepari per me una tavola di fronte ai miei nemici; spargi un profumo sul mio capo, il mio calice trabocca. Grazia e felicità mi accompagnano tutti i giorni della mia vita; abiterò nella casa del Signore per tutti i miei giorni.
Così, Gesù, dopo la pesca miracolosa, invita gli apostoli ad andare nel mondo, a pescare gli uomini, a strapparli dalle tenebre, dall’abisso oscuro dell’ignoranza, a portare loro la luce, come lui l’ha portata al mondo. Invita Pietro e gli apostoli ad essere anche pastori che conducono alle acque del riposo di Dio, in Dio.
«Quando ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami davvero più di questi?” Egli gli rispose: “Sì, Signore! Tu lo sai: ti amo”.» Gesù gli disse: «Sii il pastore delle mie pecore». Gli disse una seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami veramente?». Rispose: «Sì, Signore, tu lo sai che ti amo». Gesù gli disse: «Sii il pastore delle mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Pietro si rattristò perché, per la terza volta, Gesù gli chiedeva: «Mi ami?». Gli rispose: «Signore, tu sai tutto: tu sai bene che ti amo». Gesù gli disse: «Pasci i miei agnelli. In verità, in verità vi dico: quando eravate giovani, vi cingevate da soli la veste per andare dove volevate; ma quando sarete vecchi, tenderete le mani e un altro vi cingerà la veste e vi porterà dove non volete». Gesù disse questo per indicare con quale tipo di morte Pietro avrebbe reso gloria a Dio. Dopo queste parole, gli disse: “Seguimi”. (Giovanni 21, 15-19)
Così, come gli uccelli nel cielo, coloro che hanno fatto il loro nido tra i rami dell’albero del giusto, coloro che lo hanno riconosciuto, coloro che hanno visto il volto di Dio, come Mosè, nascosto come una colomba al riparo nella breccia della roccia, mostreranno le realtà celesti al mondo. Come uccelli, come colombe non cercheranno le realtà terrene, ma si libreranno verso il cielo. Così si moltiplicheranno e riempiranno i mari e il cielo.
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
Siamo al quinto giorno della settimana in cui si compie l’opera di Dio che contempliamo anche nella Settimana Santa, durante la quale Gesù ha offerto la sua vita per noi e ci ha condotto dalla morte alla vita. Il quinto giorno di questa Settimana Santa è quello dell’ultima cena dei discepoli con Gesù.
Durante questo pranzo, li invita a essere uno come lui e il Padre sono uno, ad essere perfetti come lui e il Padre sono perfetti.
«Ancora per poco tempo la luce è tra voi; camminate, finché avete la luce, affinché le tenebre non vi fermino; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce: sarete allora figli della luce. (Giovanni 12, 35-36)
«Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo. E per loro io santifico me stesso, affinché anche loro siano santificati nella verità. Non prego solo per quelli che sono qui, ma anche per quelli che, grazie alla loro parola, crederanno in me. Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te. Che siano in noi, anche loro, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E io ho dato loro la gloria che tu mi hai dato, perché siano uno come noi siamo UNO: io in loro e tu in me. Che siano perfettamente uno, perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me. (Giovanni 17, 18-23)
Così, la sera del Giovedì Santo, il quinto giorno, Gesù anticipa la sua opera del sesto giorno. È infatti, al sesto giorno che Gesù realizzerà questa unione, questa comunione tra le creature e il Padre, sulla croce e ci condurrà alla piena luce. Il sesto giorno, compirà la tappa finale, con la sua morte ci condurrà alla risurrezione del settimo giorno, dove non ci sarà più oscurità, né tramonto.
Con la risurrezione di Lazzaro, (raccontata in Giovanni 11, vedere questo racconto al 4° giorno), Gesù conduce la fede alla sua perfezione, alla speranza della risurrezione, della vittoria della vita sulla morte, dell’amore sul male. Così i credenti potranno essere inviati a portare la luce nel mondo, come pesci nell’acqua agitata del mare, così saranno testimoni della gloria di Dio e come gli uccelli del cielo, condurranno gli esseri umani a contemplare le realtà celesti, la gloria di Dio, la sua vittoria sul male, sulla morte. È il credente che passa come Lazzaro dalla morte alla vita: le bende che fasciano il morto diventano immagine del male che lo tiene prigioniero della morte. Esse saranno sciolte dagli apostoli che Gesù invia a perdonare i peccati slegando gli esseri umani dalle loro colpe, dall’incatenamento delle violenze. «Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo». (Matteo 18, 18). Ma prima di poter portare al mondo l’amore di Cristo, bisogna essere in comunione con lui, uniti a lui. Questo è ciò che Gesù realizza il quinto giorno, durante la cena pasquale: prepara gli apostoli a riceverlo, a nutrirsi di lui, a essere rafforzati nella fede e nei legami d’amore che ci uniscono gli uni agli altri e a Dio. In questo modo, durante l’ultima cena, conduce il suo popolo alla pienezza della fede. Prima di tutto, li prepara a riconciliarsi con Dio e tra di loro, riconoscendo l’uno di fronte all’altro che hanno bisogno di essere purificati da Dio, lavati dai loro peccati quotidiani. Questo è indicato dal gesto che Gesù compie prima di metterli a tavola: lava loro i piedi. Ciò significa che se non siamo disposti a riconoscere che, in quanto esseri umani, anche noi partecipiamo alle divisioni che ci sono in questo mondo, anche noi abbiamo commesso errori che il nostro prossimo può rimproverarci. Quindi, per poterci sedere tutti allo stesso tavolo, mangiare lo stesso cibo celeste che ci unisce gli uni agli altri attraverso l’amore di Dio, dobbiamo prima fare il possibile per riconciliarci gli uni con gli altri, poi Dio farà il resto. Lasciarsi lavare i piedi da Gesù significa riconoscere davanti agli altri i propri errori e chiedere perdono. Questa è la condizione necessaria affinché la pace regni tra di noi. Ecco le parole di Gesù:
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a presentare la tua offerta» (Matteo 5, 23-24).
«Se non ti laverò, non avrai parte con me.» (Giovanni 13, 8).
Solo allora gli apostoli potranno veramente prendere parte al pranzo a cui Gesù li ha invitati, dopo essersi lasciati lavare i piedi da Gesù, cioè dopo essersi lasciati purificare e perdonare da lui. Un pranzo durante il quale Gesù si offrirà come cibo, realizzando così una profonda comunione con lui, l’unione delle membra in un unico corpo, animati da un unico soffio, spirito d’amore. Così, il pane e il vino che Gesù darà loro dicendo: Questo è il mio corpo e questo è il mio sangue, saranno il cibo spirituale di cui il credente avrà bisogno ogni giorno per poter essere luce del mondo, per condurre l’umanità verso la pace. Questo pane quotidiano, questo cibo che viene dall’alto e che ci fa partecipare alla vita divina e ci unisce a lui, è il vero cibo di cui Gesù parla durante tutta la sua vita.
«Il pane che scende dal cielo è tale che chi ne mangia non morirà. Io sono il pane vivo, che è sceso dal cielo: se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». (Giovanni 6, 50-51).
Gesù invita gli apostoli a moltiplicare questo pranzo, a ripeterlo dopo la sua morte, per portare al mondo questo cibo che ci riunisce alla stessa tavola nell’amore, questa comunione con Dio che ci rende membra di uno stesso corpo. È dopo la morte e la risurrezione di Gesù che questa unione si realizzerà nella sua persona, il dono totale della sua vita, affinché gli esseri umani credano che sono i figli prediletti di Dio. Il quinto giorno, durante il pranzo, questo non è ancora compiuto sulla terra, Gesù non ha ancora dato la sua vita, il suo corpo, ma il suo amore è sempre presente, la vita divina è da sempre offerta all’umanità e Gesù può già offrirla a coloro che ama e che lo amano.
Questo pane disceso dal cielo, questo cibo celeste è anche al centro della preghiera che ha insegnato agli apostoli: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Matteo 6, 11). Letteralmente si dovrebbe tradurre: “Il pane dall’alto, (letteralmente: quello che “è al di sopra”) dallo a noi oggi” (Τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον). Ora, nel testo originale greco, la parola che viene spesso tradotta con quotidiano è una parola rara (ἐπιούσιον epioúsion) che ci dice che l’essere di questo pane è al di sopra: si tratta infatti del pane che è disceso dal cielo, si tratta di Gesù stesso, di Dio che si è fatto uno di noi, per condurci all’unione con lui. (Vedere l’articolo Il Padre Nostro). Ora, sarà questo cibo celeste che permetterà agli apostoli di portare Cristo al mondo, di essere i testimoni, il riflesso, del suo amore per l’umanità. Al punto che potranno dire, come San Paolo:
«Vivo, ma non sono più io, è Cristo che vive in me. Ciò che oggi vivo nel corpo, lo vivo nella fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Galati 2, 20).
Questa comunione d’amore con i suoi amici, Gesù la vive pienamente il quinto giorno, durante l’ultima cena con loro. Il dono della sua vita e ciò che questo significa e realizza per l’umanità, cioè la possibilità di ritrovare l’alleanza con Dio, di essere perdonati e riammessi alla sua presenza, sarà offerta e manifestata a tutta l’umanità il sesto giorno, con la morte e la crocifissione di Gesù. Con la sua risurrezione, poi, sarà sempre con noi, tutti i giorni della nostra vita.
Gesù viene a liberarci e a salvarci, la fede in questa vittoria sul male, la fede nella risurrezione renderà possibile ai discepoli, ai credenti, di portare questa salvezza al mondo, di essere come i pesci nel mare, testimoni delle realtà celesti come gli uccelli che fanno il loro nido sull’albero, come la colomba nella fessura della roccia. Questa fede permetterà loro di essere in comunione con Cristo nell’ultima cena, che per i secoli a venire significherà il sacrificio della sua vita, sacrificio che Cristo compirà il giorno seguente, e allo stesso tempo significherà la sua risurrezione, grazie alla quale sarà sempre con noi. E fu sera e fu mattina, quinto giorno.
6° GIORNO
כד וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים תּוֹצֵא הָאָרֶץ נֶפֶשׁ חַיָּה לְמִינָהּ בְּהֵמָה וָרֶמֶשׂ וְחַיְתוֹ-אֶרֶץ לְמִינָהּ וַיְהִי-כֵן
24 E Elohim disse: “Che la terra produca anime viventi ciascuna secondo la sua specie: bestiame, animali che strisciano e animali della terra ciascuno secondo la sua specie. E così fu.
כה וַיַּעַשׂ אֱלֹהִים אֶת-חַיַּת הָאָרֶץ לְמִינָהּ וְאֶת-הַבְּהֵמָה לְמִינָהּ וְאֵת כָּל-רֶמֶשׂ הָאֲדָמָה לְמִינֵהוּ וַיַּרְא אֱלֹהִים כִּי-טוֹב
25 E Elohim fece gli esseri viventi della terra ciascuno secondo la sua specie e il bestiame ciascuno secondo la sua specie e tutti gli animali che strisciano sulla terra ciascuno secondo la sua specie e vide Elohim che (questo è) buono.
כו וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים נַעֲשֶׂה אָדָם בְּצַלְמֵנוּ כִּדְמוּתֵנוּ וְיִרְדּוּ בִדְגַת הַיָּם וּבְעוֹף הַשָּׁמַיִם וּבַבְּהֵמָה וּבְכָל-הָאָרֶץ וּבְכָל-הָרֶמֶשׂ הָרֹמֵשׂ עַל-הָאָרֶץ
26 E Elohim disse: «Facciamo l’essere umano (אָדָם adam) nella nostra immagine come nostra somiglianza, e dirigeranno il pesce del mare e l’uccello dei cieli, il bestiame, tutta la terra e ogni animale che striscia sulla terra.
Facciamo (נַעֲשֶׂה na’asseh): Il soggetto di questo verbo è al plurale nell’originale. Ciò ha dato luogo a molti commenti, sia ebrei che cristiani. Infatti, anche se la parola per Dio (elohim) è grammaticalmente un plurale in ebraico, si accorda con un verbo al singolare nel resto del capitolo, come quando dice: “elohim creò”. L’interpretazione cristiana ha sempre visto un annuncio della Trinità in questo plurale e anche nell’evocazione della Parola creatrice di Dio e dello Spirito che vivifica e aleggia sulle acque. Al verbo “facciamo” al plurale si aggiunge anche l’aggettivo possessivo “nostro” in “nella nostra immagine come nostra somiglianza”. Ecco il commento di Agostino su immagine e somiglianza.
Essere umano (אָדָם adam): qui è al singolare, come nel caso di uccello o altri animali nei versi precedenti. Probabilmente si tratta di un uso del singolare collettivo per indicare l’insieme degli esseri umani. Infatti, il verbo è qui accordato al plurale: dirigono (יִרְדּוּ yirdū). Ma il singolare può anche evocare Cristo, che è, come ci dice San Paolo, «l’immagine del Dio invisibile, il primogenito, prima di ogni creatura: in lui, tutto è stato creato, nel cielo e sulla terra… Egli è prima di ogni cosa, e tutto sussiste in lui». (Colossesi 1, 13). È a sua immagine che il resto dell’umanità è stato creato, è in lui che l’umanità può rivolgersi a Dio e chiamarlo Padre.
כז וַיִּבְרָא אֱלֹהִים אֶת-הָאָדָם בְּצַלְמוֹ בְּצֶלֶם אֱלֹהִים בָּרָא אֹתוֹ זָכָר וּנְקֵבָה בָּרָא אֹתָם
27 E Elohim creò l’essere umano (אָדָם adam) nella sua immagine nell’immagine di Elohim lo creò maschio e femmina li creò.
כח וַיְבָרֶךְ אֹתָם אֱלֹהִים וַיֹּאמֶר לָהֶם אֱלֹהִים פְּרוּ וּרְבוּ וּמִלְאוּ אֶת-הָאָרֶץ וְכִבְשֻׁהָ וּרְדוּ בִּדְגַת הַיָּם וּבְעוֹף הַשָּׁמַיִם וּבְכָל-חַיָּה הָרֹמֶשֶׂת עַל-הָאָרֶץ
28 E Elohim li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e camminate su di essa (mettetela sotto i vostri piedi) e dirigete (mostrate la direzione) il pesce del mare e l’uccello del cielo e ogni vivente che striscia sulla terra.
כט וַיֹּאמֶר אֱלֹהִים הִנֵּה נָתַתִּי לָכֶם אֶת-כָּל-עֵשֶׂב זֹרֵעַ זֶרַע אֲשֶׁר עַל-פְּנֵי כָל-הָאָרֶץ וְאֶת-כָּל-הָעֵץ אֲשֶׁר-בּוֹ פְרִי-עֵץ זֹרֵעַ זָרַע לָכֶם יִהְיֶה לְאָכְלָה
29 E Elohim disse: “Ecco, io ho dato loro ogni erba che produce seme sulla superficie di tutta la terra e ogni albero in cui è frutto di albero che semina seme per loro sarà cibo.
ל וּלְכָל-חַיַּת הָאָרֶץ וּלְכָל-עוֹף הַשָּׁמַיִם וּלְכֹל רוֹמֵשׂ עַל-הָאָרֶץ אֲשֶׁר-בּוֹ נֶפֶשׁ חַיָּה אֶת-כָּל-יֶרֶק עֵשֶׂב לְאָכְלָה וַיְהִי-כֵן
30 E per ogni vivente della terra, per ogni uccello dei cieli e per ogni [vivente] che striscia sulla terra, in cui è un’anima vivente ogni erba verde per cibo e così fu.
לא וַיַּרְא אֱלֹהִים אֶת-כָּל-אֲשֶׁר עָשָׂה וְהִנֵּה-טוֹב מְאֹד וַיְהִי-עֶרֶב וַיְהִי-בֹקֶר יוֹם הַשִּׁשִּׁי
31 E Elohim vide tutto ciò che aveva fatto ed ecco (questo è) molto buono e fu sera e fu mattina, sesto giorno.
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
Ecco che con il sesto giorno si conclude l’opera della creazione e questo compimento è segnato da un cambiamento dell’espressione divina alla fine di ogni giorno-tappa. Infatti, alla fine di ogni giorno, il testo dice letteralmente: “E Elohim vide che-buono” (vayyar Elohim kiy-ṭov וַיַּרְא אֱלֹהִים כִּי-טוֹב). La particella «-kiy» è generalmente tradotta con «che», ma il suo significato originario era piuttosto «così» o «perché». Cioè, si vuole piuttosto spiegare “a causa di cosa”, “perché” questo è buono: poiché ogni anima vivente che viene creata può essere condotta dalle tenebre alla luce. Ora, alla fine del sesto giorno, questo è finalmente realizzato e il testo dice: E Elohim vide tutto ciò che aveva fatto ed ecco (questo è) molto buono. La particella “-kiy” è scomparsa ed è apparso il qualificativo “molto”. Infatti, tutto ciò che è nelle tenebre nei primi giorni può finalmente giungere alla piena luce, essere infine condotto al riposo del settimo giorno, dove non ci sarà più tramonto, non ci sarà più oscurità, perché la creazione potrà finalmente accedere al riposo in Dio, alla visione di Dio.
Torniamo all’inizio del racconto: questa serie di tappe non descrive una successione temporale, ma evidenzia un ordine nel piano di Dio che crea tutto simultaneamente, che è sempre all’opera dando vita al mondo continuamente e conducendo continuamente ciascuna delle sue creature al bene, alla gioia perfetta. Quindi, questo racconto ci mostra in una sequenza logica tutta l’opera di Dio, affinché il suo piano di far partecipare ogni creatura alla sua luce si realizzi in ognuno nel corso della storia. Così, come prima viene creata la luce, vengono create le creature spirituali, gli angeli, ma anche la luce di Dio, quella che è presso di lui, si fa carne e viene a illuminare le tenebre in cui si trovano gli esseri umani che hanno bisogno del suo aiuto. Allo stesso tempo, cioè fuori dal tempo, nel piano divino, nella visione divina, la sua Parola si fa carne e Gesù viene a offrire la sua vita all’umanità durante la Settimana Santa. Così, l’umanità potrà vedere la gloria di Dio (giorno 1), accedere alla fonte della vita (giorno 2), essere come una terra fecondata da questa fonte e portare frutto (giorno 3), essere come luminari nel cielo, riflettendo la luce di Dio nell’oscurità (giorno 4), essere condotti dalle acque agitate e salate del mare di questo mondo all’esperienza delle realtà celesti (giorno 5), tutto questo si realizzerà pienamente quando l’umanità sarà perfettamente unita a Dio, accedendo attraverso Gesù Cristo alla relazione filiale con Dio, all’unione con lui (giorno 6).
Dio è amore e l’immagine di questo amore sulla terra si trova nella relazione d’amore fra l’uomo e la donna, nella fedeltà, nel desiderio di offrire la propria vita ad altre creature, nel dono d’amore pienamente libero e volontario, nella scelta di amare. Queste caratteristiche dell’amore nella coppia, nella famiglia e nei figli sono infatti le caratteristiche dell’amore divino, del gesto creatore di Dio, che vuole dare la sua vita, condividere la sua gioia con altre creature in un amore che non avrà mai fine. Questo amore divino lo vediamo all’opera in Gesù nella Settimana Santa, quando Egli sceglie di offrire liberamente la sua vita all’umanità affinché l’umanità riceva la vita in tutta la sua pienezza. In tal modo Egli realizza un’alleanza con l’umanità, a immagine di un matrimonio, con gli stessi legami d’amore che uniscono per sempre una coppia, una famiglia, moltiplicando la gioia del dono della propria vita per coloro che amiamo.
- L’opera di Dio manifestata e compiuta nella persona di Gesù e nella Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo:
Vediamo, quindi, come il piano di Dio si realizza in Gesù Cristo, come conduce tutta la creazione alla sua perfezione, come nella Settimana Santa si compie l’opera della salvezza.
Infatti, San Paolo ci spiega che è lui, Gesù, il primogenito prima di ogni creatura.
«Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito, prima di ogni creatura: in lui, tutto è stato creato, in cielo e sulla terra… È prima di ogni cosa e tutto sussiste in lui. È anche la testa del corpo, la testa della Chiesa: è lui il principio (arkhē), il primogenito tra i morti, affinché abbia il primato in ogni cosa.» (Colossesi 1, 13.18).
In effetti, tutto è stato creato dalla Parola di Dio e questa Parola si è fatta carne in Gesù Cristo, secondo il piano eterno di Dio di dare la sua vita al mondo. Egli è l’inizio di ogni cosa e quindi gli esseri umani sono fatti a sua immagine e somiglianza. Egli è l’inizio di tutte le cose e porta tutto alla sua realizzazione, cioè conduce gli esseri umani alla visione di Dio. Dio è amore e noi abbiamo la piena visione dell’amore di Dio in Gesù Cristo. È vedendo il suo volto d’amore che le creature potranno accedere a Dio, potranno essere strappate alle tenebre, vedendo l’immensità del suo amore che si dona alle sue creature nonostante i loro errori. Il per-dono è il dono rinnovato dell’amore, che si dona ancora e ancora. Gesù ci invita a perdonare 70 volte 7 volte (Matteo 18, 22), cioè a continuare a dare amore a chi lo chiede, senza guardare ai suoi meriti.
Vediamo quindi in questa sesta tappa che ci conduce alla contemplazione del Padre, tutti gli animali terrestri, i nostri vizi e le nostre virtù che sono guidati dall’essere umano verso la luce. I peccati, le cattive azioni per essere perdonati e le buone azioni per rendere grazie.
È il sesto giorno, quello della Settimana Santa, in cui Gesù viene crocifisso e in cui, prima di morire, dice: «Tutto è compiuto» (Giovanni 19,30). L’opera della creazione è compiuta, la luce si è rivelata alle creature, che erano nelle tenebre che impedivano loro di trovare la via. L’immensità dell’amore di Dio, della gloria di Dio, si rivela sulla croce.
Ora, Cristo è la testa del corpo, la testa della Chiesa. Ciò significa che infonde, infonde la sua vita e il suo amore nelle sue membra. È un’unione e una comunione profonda, ciò implica che le membra condividano la stessa volontà della testa, lo stesso amore, l’uno al servizio dell’altro come colui che è la testa e dà loro la sua vita.
«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore, il vero pastore, che dà la vita per le sue pecore.» (Giovanni 10, 10-11)
«E io ho dato loro la gloria che tu mi hai dato, perché siano UNO come noi siamo UNO: io in loro e tu in me. Che siano così perfettamente UNO, perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.» (Giovanni 17, 22-23)
Questa profonda unione in cui i due non formano più che uno è paragonabile anche all’unione dell’uomo e della donna di cui si parla qui nel sesto giorno, così come nel sesto giorno della Settimana Santa in cui in Gesù Cristo si rivela questa perfetta unione tra Dio e l’umanità. Egli è pienamente Dio perché in lui risiede la pienezza dell’amore di Dio ed è pienamente uomo. Pur essendo un essere umano, può amare come Dio ama e vuole anche condurci a questa perfezione dell’amore. Dio prepara questa strada per le sue creature, i suoi figli, dall’inizio del mondo e ha inviato i profeti per mostrarci la via, affinché credessimo. Ma, ovviamente, il vero amore nasce in noi spontaneamente e liberamente, nessuno può costringere all’amore, nessuno potrebbe imporre al cuore di amare. Per questo, quando Dio manda i suoi profeti, i suoi portavoce, a parlare al popolo, dice loro di rivolgersi al popolo come un fidanzato alla sua fidanzata, nel rispetto della volontà di ciascuno.
«Non ti si dirà più: “Abbandonata!” Al tuo paese nessuno dirà: “Desolazione!” Tu sarai chiamata “La mia preferita”, questa terra si chiamerà “La Sposa”. Perché il Signore ti ha preferita, e questa terra diventerà “La Sposa”. Come un giovane sposa una vergine, così colui che ti edifica ti sposerà. Come la giovane sposa è la gioia del marito, tu sarai la gioia del tuo Dio.» (Isaia 62, 4-5).
Così, nella Bibbia, la relazione tra Dio e le sue creature che non vogliono credere nel suo amore è descritta come la relazione tra un fidanzato che propone il suo amore alla sua amata e che deve convincerla della sua sincerità, della gratuità del suo amore, della sua fedeltà: sarebbe pronto a dare la vita per lei. Questo atteggiamento è descritto in tutto il libro del Cantico dei Cantici: un dialogo tra due fidanzati, pieno di rispetto, di desiderio di donarsi l’un all’altro, ma bisogna avere fiducia che questo amore sia sincero. Eccone alcuni passaggi:
«Il mio amato è simile a una gazzella, a un cerbiatto. Eccolo, è lui che sta dietro il nostro muro: guarda alle finestre, spia attraverso il traliccio. Parla, il mio amato, mi dice: Alzati, mia amica, mia bellissima, e vieni… Colomba mia, nelle fessure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, che io veda il tuo volto, che io senta la tua voce! La tua voce è dolce, e il tuo volto, incantevole… Il mio amato è mio, e io sono sua, di colui che conduce le sue pecore al pascolo tra i gigli.» (Cantico dei Cantici 2, 9-10.14.16)
Il fidanzato si trova dietro il muro, all’ingresso, e aspetta che gli aprano, che la fidanzata sia pronta. Ammira colei che aspetta di riconoscere il suo fidanzato, colui di cui può fidarsi, colui che avrà provato il suo amore. Il fidanzato la descrive così:
«Giardino chiuso, sorella mia fidanzata, fontana chiusa, sorgente sigillata.» (Cantico dei Cantici 4, 12).
Non oserà varcare la soglia senza essere pienamente accolto dalla sua amata.
Ed ecco la ricerca, il desiderio di unione di colei che non ha ancora trovato il suo fidanzato, ma che sarà aiutata più volte, grazie a coloro che le testimonieranno di averlo visto, che sapranno dirle dove trovarlo, dirle che aspetto ha. Questo dialogo ci presenta gli amanti desiderosi di incontrarsi, di fidarsi l’uno dell’altro e ci racconta anche le loro pene, quando non si trovano. Questo dialogo ci parla della relazione tra l’umanità e Dio.
«Sul mio letto, di notte, ho cercato colui che la mia anima desidera; l’ho cercato; non l’ho trovato. Sì, mi alzerò, girerò per la città, per le strade e le piazze: cercherò colui che la mia anima desidera; l’ho cercato; non l’ho trovato. Mi hanno trovata, le guardie, loro che girano per la città: “Quello che la mia anima desidera, l’avete visto?” Appena li avevo superati, ho trovato quello che la mia anima desidera: l’ho afferrato e non lo lascerò finché non l’avrò fatto entrare nella casa di mia madre, nella camera di colei che mi ha concepito.» (Cantico dei Cantici 3, 1-4)
«Vi supplico, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio amato, cosa gli direte? Che sono malata d’amore.» (Cantico dei Cantici 5, 8)
Alla fine, i due si troveranno, potranno donarsi l’un l’altro, fidarsi l’uno dell’altro e diventare una cosa sola quando la gioia dell’uno sarà diventata la gioia dell’altro e il dolore dell’uno, il dolore dell’altro. Questo stesso linguaggio è usato da Gesù in tutto il Vangelo: parla come lo sposo che aspetta la risposta della sua sposa, farà tutto il possibile per dimostrarle il suo amore, al fine di essere uno con lei.
Ecco l’ultimo dei profeti che hanno annunciato al popolo l’amore di Dio per le sue creature e hanno cercato di convincerlo della sincerità e della fedeltà di questo amore, ecco Giovanni Battista che annuncia Gesù che viene verso il suo popolo come lo sposo che viene incontro alla sposa, lui, Giovanni, è l’amico dello sposo.
«Chi ha la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, è presente e sente la voce dello sposo et se ne rallegra. Tale è la mia gioia ed è perfetta.» (Giovanni 3, 29)
E Gesù, molte volte, parla di sé come dello sposo, ma sa che questo sposo dovrà dimostrare il suo amore, che l’umanità non sarà pronta a fidarsi di lui, avrà bisogno di vedere fino a che punto può arrivare questo amore, fino al dono della propria vita?
«Gesù rispose loro: “Gli invitati alle nozze potrebbero dunque essere in lutto durante il tempo in cui lo Sposo è con loro? Ma verranno giorni in cui lo Sposo sarà loro tolto; allora digiuneranno.» (Matteo 9, 15)
«Il regno dei cieli è simile a un re che celebrò le nozze di suo figlio.» (Matteo 22, 2)
E Gesù all’inizio della sua missione, durante il suo primo miracolo, a Cana, annuncia che questo si realizzerà, che queste nozze avranno luogo, al prezzo del suo sangue, solo allora l’umanità potrà credere nell’amore di Dio, fidarsi di lui e diventare uno con lui.
Infatti, Gesù compirà il suo primo miracolo durante una festa di nozze, a Cana di Galilea. Gli sposi non avevano più vino, così la madre di Gesù gli chiede di fare qualcosa. Allora Gesù, che fino a quel momento era rimasto a Nazareth perché Maria e Giuseppe non gli avevano ancora permesso di intraprendere il cammino che lo avrebbe portato alla morte, si rivolge a sua madre, come se si rivolgesse all’umanità intera. Infatti, chiama sua madre “donna” e attende il suo consenso, come lo sposo attende quello della sposa. È davvero pronta a fidarsi? Ecco il dialogo:
«Che c’è tra me e te, donna? Non è ancora giunta la mia ora». (Giovanni 2,4)
Quando Gesù parla della «sua ora» nel Vangelo, allude al momento in cui darà la sua vita sulla croce, è l’ora che aspetta:
«È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. Amen, amen, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, porta molto frutto. Chi ama la sua vita la perde; chi si distacca da essa in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se qualcuno vuole servirmi, mi segua; e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se qualcuno mi serve, il Padre mio lo onorerà. Ora la mia anima è turbata. Che cosa dirò? “Padre, salvami da quest’ora”? – Ma no! È per questo che sono arrivato a quest’ora!» (Giovanni 12, 23-27)
E questa ora, la chiama anche battesimo:
«Devo ricevere un battesimo, e quale angoscia è la mia finché non sia compiuto!» (Luca 12, 50).
Infatti, la parola battesimo significa immergere nell’acqua e l’acqua di cui si parla a Cana è una figura della nostra umanità. Non c’è più vino, solo acqua, manca lo spirito a quest’acqua per diventare vino, quest’acqua che figura l’umanità deve ricevere lo spirito di Dio. È pronta ad accoglierlo? È per questo che Gesù chiede a sua madre, l’unica tra tutte le creature ad avere questa piena fiducia in Dio, se è pronta ad accettare che questa unione si realizzi, se è pronta ad accettare che suo figlio offra la sua vita e versi il suo sangue affinché l’umanità sia salvata, ritrovi la fiducia in Dio e sia unita a lui come in un matrimonio affinché i due diventino uno.
Maria, che rappresenta quindi l’umanità, risponde ancora una volta «sì», lei che aveva già acconsentito al piano di Dio dicendo sì alla sua proposta di concepire il salvatore dell’umanità, essendo lei vergine. Il miracolo si compie e cinque giare d’acqua, che rappresentano l’umanità, i suoi cinque sensi con i cinque libri della legge di Mosè, vengono trasformate in vino, il migliore dei vini per la gioia degli sposi e degli invitati. È l’acqua dell’umanità che riceve lo spirito di Dio, che la trasforma in vino rosso come il sangue, il sangue in cui si trova la vita. Questo sangue che un giorno scorrerà dal fianco aperto di Gesù insieme all’acqua sarà il segno del battesimo, quel battesimo che Gesù attende e che annuncia qui, con questo miracolo. Quel battesimo che manifesta la volontà di Gesù di immergersi nella nostra umanità, diventando uno di noi a tal punto, da correre tutti i rischi che ciò comporta: essere confuso con i criminali, essere condannato a morte. Ma, come nel battesimo, chi si immerge nell’acqua per significare la sua morte, riemerge vittorioso dall’acqua, significando la vittoria sulla morte, sul male, attraverso la sua risurrezione.
Quindi, ciò che viene annunciato e spiegato qui a Cana, si realizzerà il giorno in cui Gesù sarà crocifisso. Allora significherà a sua madre che l’unione tra lui e l’umanità si è finalmente realizzata: ha dato la sua vita per lei e ora l’umanità può accogliere questa vita e portare frutto, essere trasformata a sua immagine e somiglianza, per diventare uno con lui, per formare un’unica famiglia di fratelli e sorelle che ricevono la vita da un’unica fonte d’amore, in Dio.
Ecco il dialogo di Gesù con sua madre quando è sulla croce, la chiama ancora una volta “donna” e questa donna, come la donna di cui parla il secondo capitolo della Genesi, diventerà la madre di tutti i viventi, cioè di tutti coloro che vivono dello spirito di Dio, che ricevono la vita da Lui rendendo grazie nella piena fiducia e che ora formano una sola famiglia.
«Gesù, vedendo sua madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé. Dopo questo, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si adempisse la Scrittura fino in fondo, Gesù disse: «Ho sete». C’era lì un recipiente pieno di un liquido a base di aceto. Quindi fissarono una spugna piena di aceto a un ramo di issopo e lo avvicinarono alla sua bocca. Quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto». Poi, chinando il capo, rimise lo spirito.» (Giovanni 19, 26-30)
Quando Gesù prese quel sorso amaro di aceto, quando Gesù accoglie in sé quell’umanità che ha snaturato l’immagine del Padre con rivalità, odio e violenze, allora potrà dire che l’opera della creazione è compiuta. Ora questa umanità potrà accogliere la vita divina rendendo grazie, passare veramente dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce e diventare uno con lui. Infine, Dio ha condotto l’umanità creata nella sua immagine, cioè con tutta la capacità e il potenziale di amare come lui ci ama, fino al più grande amore, fino alla piena somiglianza con lui. Ecco, l’opera di Dio compiuta: quando ha condotto l’umanità alla piena somiglianza con lui, realizzando un’unione tale da essere paragonabile a quella di una coppia, dove i due non sono più che uno.
«Nel principio della creazione, Dio li fece uomo e donna. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. Quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi!» (Marco 10, 6-9).
Ecco l’opera di Dio compiuta quando si realizza questa unione tra Dio e l’umanità: è di quest’opera, quella che conduce all’unione con Dio, che parla Gesù quando dice:
«Il Padre mio opera fino ad ora e anch’io opero» (Giovanni 5, 17).
Il Padre, attraverso il Figlio, che è la sua immagine perfettamente somigliante, che compie perfettamente il suo volere nella piena fiducia che questo sarà il cammino verso il più grande amore, non smette di guidare gli esseri umani, i suoi figli, pazientemente, come un pedagogo, attraverso le tappe che li condurranno alla contemplazione della piena luce, della perfetta gioia di amare e di dare la vita per coloro che amano.
«Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te. Che anche loro siano uno in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E io ho dato loro la gloria che tu mi hai dato, perché siano uno come noi siamo UNO: io in loro e tu in me. Che siano perfettamente uno, affinché il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.» (Giovanni 17, 21-23)
Ecco compiuta l’opera di Dio nel sesto giorno, nel sesto giorno della Settimana Santa, quando Gesù, il Venerdì Santo, offre la sua vita sulla croce e crea questa coppia, animata dallo stesso Spirito, quest’uomo e questa donna a immagine pienamente somigliante a quella dell’amore di Dio. Allora il mondo intero potrà credere, una volta che avrà visto questo amore all’opera in migliaia di uomini e donne che daranno la loro vita per amore, come Cristo, avendo accolto la vita come un dono di Dio, nel rispetto e nella fiducia. È difficile credere in questo amore gratuito di Dio, eppure questa unione con lui è possibile e la contempliamo in tutti coloro che ci avranno trasmesso questo amore, che saranno stati per noi un riflesso dell’amore divino, gratuito, sovrabbondante, benevolo.
Vediamo ora quest’ultima tappa che permetterà ad ogni essere umano di accogliere questo spirito e di diventare uno con Dio.
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
In questo sesto giorno, l’essere umano è chiamato a condurre i pesci che noi siamo verso le acque dolci e tranquille, verso la fonte del vero amore. Ed è anche chiamato a condurre gli uccelli verso il cielo e non verso le realtà terrene e corruttibili. Allo stesso modo, deve imparare dall’esempio degli animali della terra, che saranno altrettante immagini dei nostri vizi e delle nostre virtù che devono essere domati o imitati. Ma tutto questo non sarà possibile se l’essere umano non avrà prima risposto all’invito di Dio di diventare uno con lui, di lasciarsi condurre a questo amore perfetto attraverso colui che ce lo offre. Non potremo amare veramente finché non avremo riconosciuto questa amore in tutte le sue caratteristiche, finché non sapremo come l’amore del Creatore, a differenza del nostro, è capace di amare ogni sua creatura e di dare la vita per la moltitudine, per coloro che lo offendono o lo disprezzano. È così che ci invita a seguirlo per vedere il volto amorevole di Dio: vedere il volto amorevole di Dio significa diventare simili a Lui, vedendo come ama ciascuna delle sue creature. Ecco come Gesù risponde a coloro che vogliono vedere il Padre:
«Filippo gli dice: “Signore, mostraci il Padre, ciò ci basta.” Gesù gli risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi conosci, Filippo! Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi che io sono nel Padre e che il Padre è in me? Le parole che vi dico, non le dico da me stesso; il Padre che dimora in me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non credete a me, credete almeno a causa delle opere stesse. Amen, amen, vi dico: chi crede in me, compirà le opere che io compio. Ne farà anche di più grandi, perché io vado al Padre, e tutto ciò che chiederete nel mio nome, lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio.» (Giovanni 14, 8-13).
Per vedere il Padre in tutta la sua gloria si dovrà seguire Gesù nei suoi ultimi giorni, seguirlo fino alla croce e là ci sarà rivelato il volto misericordioso di Dio, il suo amore per tutte le creature.
Ecco cosa propone Gesù per condurci al Padre, lo propone come un fidanzato che non può obbligare la sua fidanzata ad accettarlo, a fidarsi della sua parola, perché lei vuole prima avere la prova della veridicità del suo amore. Il giorno in cui Gesù avrà dimostrato questo amore incondizionato di Dio per i suoi figli, allora l’umanità sarà pronta a credere, ma questo fede, questa fiducia, non potrà essere forzata. Ecco quindi l’immagine dello sposo che, come lo sposo del Cantico dei Cantici, sta alla porta, senza forzarla:
«Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, entrerò da lui, pranzerò con lui e lui con me.» (Apocalisse 3, 20).
Ecco, dunque, che per l’umanità che è pronta a fidarsi, come una sposa del suo sposo, l’unione sarà possibile, una comunione tale che lo spirito d’amore di Dio potrà abitare pienamente nel cuore dei suoi figli. Le nozze saranno così compiute, ma al prezzo della vita di Gesù. Quest’ultimo sarà come un agnello che viene condotto al macello, senza protestare, innocente, ci rivelerà il volto amorevole di Dio pronto a dare, a sacrificare la sua vita per dimostrare l’autenticità del suo amore. Allora, l’essere umano potrà essere pienamente illuminato da questa luce divina, vedere Dio così com’è e diventare simile a lui. La Bibbia chiama il compimento dell’opera divina le nozze dell’agnello: Gesù è l’agnello di Dio e noi siamo gli invitati al banchetto nuziale durante il quale siamo in comunione con la vita di Dio, siamo uniti a lui. Vediamo cosa ci rivela San Giovanni attraverso la visione che ha avuto della vittoria dell’amore divino, la vittoria dell’agnello, sul male e sulla morte:
«Rallegriamoci, esultiamo e rendiamo gloria a Dio! Perché sono giunte le Nozze dell’Agnello, e per lui la sua sposa ha indossato il suo ornamento. Le è stato dato un abito di lino fine, splendido e puro». Perché il lino è il simbolo delle azioni giuste dei santi. Poi l’angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!» E aggiunse: «Queste sono le vere parole di Dio.» (Apocalisse 19, 7-9)
Come si può raggiungere una tale unione con Cristo? È necessario un abbandono totale, una fiducia totale, infatti, essere totalmente al servizio degli altri, implica andare fino in fondo all’amore anche se questo comporta prove o il sacrificio della propria vita.
«Vi ho detto queste cose, perché in me abbiate pace. Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio; io ho vinto il mondo.» (Giovanni 16:33).
Molte saranno le testimonianze dei suoi discepoli che, nel subire la persecuzione, faranno però l’esperienza di un amore più forte della morte, un amore che l’odio e la vendetta verso i persecutori non potranno vincere. Una volta che l’amore di Dio dimora in noi e che rimaniamo legati a Lui, una volta che il nostro cuore non cede alla vendetta, il suo amore risplende in noi, porta frutto, si moltiplica. Proprio come è promesso e annunciato nel versetto della Genesi: “Portate frutto, moltiplicatevi e riempite la terra” (Genesi 1, 28). La coppia è creata, l’unione con Dio è realizzata, allora potremo contemplare l’amore di Dio sulla terra attraverso tanti uomini e donne che saranno come stelle nei momenti bui in cui gli uomini si dividono, si affrontano. Gli esempi di amore gratuito porteranno frutto nei cuori degli esseri umani e così coloro che avranno contemplato l’amore di Gesù sulla croce, persino i suoi persecutori, saranno forse pronti ad aprire la porta del loro cuore a chi bussa e li invita al perdono, alla riconciliazione, alla fiducia.
Ecco la testimonianza dell’apostolo Paolo, imprigionato e perseguitato, che ha portato all’amore molti di coloro che erano in prigione con lui, compresi i carcerieri.
« Cristo Gesù è morto; anzi, è risorto, è alla destra di Dio, intercede per noi: chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? La tribolazione? L’angoscia? La persecuzione? La fame? La nudità? Il pericolo? La spada? Infatti, è scritto: È per voi che siamo continuamente massacrati, che siamo trattati come pecore da macello. Ma, in tutto questo, siamo i grandi vincitori grazie a colui che ci ha amati. Ne sono certo: né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.» (Romani 8, 34-39)
Possiamo anche leggere l’intero capitolo 8 della lettera di San Paolo ai Romani che riassume tutte le fasi dell’amore attraverso le quali Dio ha condotto i suoi figli a lui, nella fiducia, li ha rafforzati e resi pienamente simili a lui nell’amore, affinché possano gustare una pace che nessuno potrà togliere loro.
«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; vi chiamo amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi. Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, affinché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Allora, tutto ciò che chiederete al Padre nel mio nome, egli ve lo darà. Ecco ciò che vi prescrivo: amatevi gli uni gli altri. Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me. … Quando verrà il Difensore, che io vi manderò dal Padre, lui, lo Spirito di verità che procede dal Padre, renderà testimonianza a mio favore. E anche voi renderete testimonianza, perché siete con me fin dall’inizio.» (Giovanni 15, 15-18.26-27)
Così, Gesù promette un difensore, lo Spirito Santo di Dio che abita in coloro che lo avranno accolto ritrovando la fiducia dei figli verso i loro genitori, Gesù promette una pace di un altro ordine, la pace di essere amati da Dio e di amare come Lui ama:
«Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non come la dà il mondo, io la do a voi.» (Giovanni 14, 27).
Ecco ancora le parole di San Paolo che ci parla di questa pace che desidera portare a tutti gli uomini, questa pace che ha ricevuto da Cristo e che gli permette di essere un riflesso del suo amore anche per i suoi nemici, i suoi persecutori.
«Che tutto, per mezzo di Cristo, sia finalmente riconciliato con lui, facendo la pace attraverso il sangue della sua Croce, la pace per tutti gli esseri sulla terra e in cielo. E voi, un tempo eravate estranei a Dio, e persino suoi nemici, per i vostri pensieri e le vostre cattive azioni. Ma ora Dio vi ha riconciliati con lui nel corpo di Cristo, il suo corpo di carne, per mezzo della sua morte, per presentarvi davanti a lui santi, immacolati e irreprensibili. Questo si realizza se rimanete saldamente fondati nella fede, senza allontanarvi dalla speranza che avete ricevuto ascoltando il Vangelo proclamato a ogni creatura sotto il cielo. Di questo Vangelo io, Paolo, sono diventato ministro. Ora trovo la gioia nelle sofferenze che sopporto per voi; ciò che resta da soffrire delle prove di Cristo nel mio stesso corpo, lo compio per il suo corpo che è la Chiesa. Di questa Chiesa sono diventato ministro, e la missione che Dio mi ha affidato è quella di portare a termine per voi l’annuncio della sua parola, il mistero che era nascosto da sempre a tutte le generazioni, ma che ora è stato manifestato a coloro che ha santificato. Perché Dio ha voluto far loro conoscere in che cosa consiste la gloria senza prezzo di questo mistero a tutti i popoli: Cristo è fra di voi, lui, la speranza della gloria! Questo Cristo, lo annunciamo: avvertiamo ogni uomo, istruiamo ciascuno nella saggezza, per portarlo alla sua perfezione in Cristo. Per questo mi affatico a combattere, con la forza di Cristo, la cui potenza agisce in me.» (Colossesi 1, 20-29).
Quando questa pace si realizza e gli esseri umani diventano uno, quando la riconciliazione permette l’unione, allora possiamo partecipare pienamente alle nozze, allora l’umanità vive la sua unione con Dio, partecipa alla sua felicità e viceversa, come nell’unione dello sposo e della sposa.
«Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa.» (Efesini 5, 31-32).
E nell’ultimo capitolo del libro dell’Apocalisse, dove San Giovanni racconta la visione che ha avuto della vittoria dell’agnello, della vittoria dell’amore sul morte, Gesù dice:
“Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per portarvi questa testimonianza riguardo alle Chiese. Io sono il germoglio, il discendente di Davide, la stella risplendente del mattino”. Lo Spirito e la Sposa dicono: «Vieni!». Chi ascolta, dica: «Vieni!». Chi ha sete, venga. Chi lo desidera, riceva gratuitamente l’acqua della vita.» (Apocalisse 22, 16-17)
Questo ci introduce, quindi, alla pace di Dio nella sua creazione e della creazione in lui, lo sposo e la sposa si incontrano, l’opera è compiuta.
Ecco, quindi, ciò che ci presenta il 7° giorno, la tappa finale, eterna, dove la luce regna per sempre e le tenebre non sono più.
7° GIORNO
Genesi 2, 1-3
וַיְכֻלּוּ הַשָּׁמַיִם וְהָאָרֶץ וְכָל־צְבָאָם׃
1 E i cieli e la terra furono completati e tutto il loro esercito.
וַיְכַל אֱלֹהִים בַּיֹּום הַשְּׁבִיעִי מְלַאכְתֹּו אֲשֶׁר עָשָׂה וַיִּשְׁבֹּת בַּיֹּום הַשְּׁבִיעִי מִכָּל־מְלַאכְתֹּו אֲשֶׁר עָשָֽה׃
2 E Elohim completò nel settimo giorno l’opera che aveva fatto e cessò nel settimo giorno tutta l’opera che aveva fatto.
וַיְבָרֶךְ אֱלֹהִים אֶת־יֹום הַשְּׁבִיעִ֔י וַיְקַדֵּשׁ אֹתֹו כִּי בֹו שָׁבַת֙ מִכָל־מְלַאכְתֹו אֲשֶׁר־בָּרָא אֱלֹהִים לַעֲשֹֽׂות
3 E Elohim benedisse il settimo giorno e lo santificò poiché in quel giorno cessò ogni opera che Elohim aveva creato da fare.
Per quanto riguarda il settimo giorno, vedi anche gli articoli Shabbat, il riposo di Dio e Il Regno dei Cieli.
Prima di entrare nei tre significati della Scrittura, vediamo alcune parole ed espressioni essenziali per comprendere questi versetti:
- La sua opera che ha fatto (mala’khto asher ‘asah מְלַאכְתֹּ֖ו אֲשֶׁ֣ר עָשָׂ֑ה)
- Benedisse (yevarekh יְבָ֤רֶךְ)
- Santificò (yeqaddesh יְקַדֵּ֖שׁ)
- Ciò che aveva creato da fare (asher-bara’ elohiym la’assot אֲשֶׁר־בָּרָ֥א אֱלֹהִ֖ים לַעֲשֹֽׂות)
- Cessò (shavat שָׁבַת).
Vediamo quindi in profondità i significati possibili di ciascuna di queste parole:
- La sua opera che ha fatto (mala’khto asher ‘asah מְלַאכְתֹּ֖ו אֲשֶׁ֣ר עָשָׂ֑ה). Qui si parla dell’opera che Dio ha fatto. La parola mala’khah (qui nella forma costrutta con il pronome possessivo di terza persona maschile per dire “la sua” opera mala’khto) indica un compito da svolgere e il verbo che la introduce è il verbo ‘asah (עָשָׂה) fare. Non si tratta quindi di creare (bara’), ma di fare (‘asah). Dio ha creato e mantiene in esistenza la creazione. D’altra parte, l’opera che ha compiuto è quella di condurre l’umanità dalle tenebre alla luce. Questa opera, in cui il Padre è sempre all’opera in ognuno di noi, in ogni essere umano, Gesù la manifesta nella sua vita. Con la sua morte e risurrezione, ci mostra come Dio ha realizzato la sua vittoria sulle tenebre, come ha portato l’umanità a contemplare la sua luce. Questa opera (mala’khah) è stata compiuta, completata, Dio ci fa entrare nel suo riposo.
- La seconda parola: benedisse (yevarekh יְבָ֤רֶךְ). Dove nella Bibbia si dice che Dio benedice, ciò che è benedetto si moltiplica, cioè diventa immagine dell’amore di Dio. Dio non può tenere per sé il suo amore, desidera diffonderlo sulle sue creature, a qualsiasi costo. Ecco come ce ne parla San Paolo:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù: Cristo Gesù, sussistendo nella forma divina, non considerò la sua uguaglianza con Dio come un bene da tenere per sé; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato: gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e negli inferi, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è il Signore» a gloria di Dio Padre.» (Filippesi 2, 5-11).
Allora, proprio come Gesù ha portato frutto offrendo la sua vita e rivelando così l’amore di Dio, allo stesso modo chi riflette l’amore di Dio per i suoi figli e il prossimo in questo mondo porterà frutto, al centuplo. Gesù ce lo mostra non solo attraverso parabole, ma anche attraverso segni: moltiplicherà i pani e i pesci per nutrire le folle, dando così un segno della vera vita che proviene da Dio come il nostro pane quotidiano. Anche coloro che sono diventati credenti offrono la loro vita come pesci nelle acque di questo mondo. Allo stesso modo, nell’Antico Testamento si ripete spesso l’immagine di Dio che benedice le greggi e gli agnelli si moltiplicano. In effetti, il gesto di amore gratuito non rimarrà senza effetto in questo mondo, grazie a questo amore coloro che lo avranno ricevuto, accolto, scopriranno a loro volta la felicità di essere amati, saranno riconoscenti e il loro cuore si riempirà di amore. Ciò che è benedetto è pieno della presenza di Dio e diffonde la sua luce, si moltiplica, porta frutto. Questo è il Regno dei cieli che accoglie tutti coloro che lo avranno ricevuto, tutti coloro che lo avranno rivestito a loro volta, come gli invitati alle nozze, che indossano l’abito nuziale, risplendono della luce di Dio.
- Egli santificò (yeqaddesh יְקַדֵּ֖שׁ). In questa terza parola è espresso l’opera di Dio compiuta in ciascuno: ha reso santo, cioè ha riempito della sua presenza. Questo è compiuto, il nome di Dio è santificato perché la sua opera si riflette nelle sue creature. Quando Gesù ci invita, nel Padre Nostro, a chiedere di santificare il nome di Dio, significa che ci invita a chiedere di essere riempiti della presenza e dell’amore di Dio affinché gli altri scoprano la gioia di amare, grazie all’amore che avranno ricevuto dal prossimo, affinché rendano grazie a Dio, cantino la sua gloria e ripetano ciò che ha fatto per noi.
«Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano uno come noi siamo uno. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.» (Giovanni 17, 21-23)
Così, il nome di Dio è santificato, tutti riflettono la sua gloria, l’immensità del suo amore. Così, Dio completa la sua opera in noi.
- Ciò che aveva creato da fare (asher-bara’ elohiym la’assot אֲשֶׁר־בָּרָ֥א אֱלֹהִ֖ים לַעֲשֹֽׂות). Ecco i due verbi che ci parlano di Dio: prima ha creato bara’ e poi c’è ciò che farà la’assot, ciò che è da fare. Ha creato (bara’ בָּרָא), questo indica un’azione compiuta, l’azione di Dio di far esistere ciò che non esisterebbe senza di lui. Questa azione non si ferma nel momento in cui la creatura viene all’esistenza, ma continua eternamente perché la creatura riceve continuamente la sua vita da Dio. Inoltre, coloro che contempleranno Dio eternamente saranno pienamente animati, vivificati dalla vita di Dio. Ma questo non è ciò che è designato dalla parola “fare”, la’assot. Questa parola deriva dalla radice ‘asah, fare, e indica, al contrario, l’opera che Dio compie in questo mondo per condurlo alla piena luce, la sua opera di salvezza, attraverso la quale ci salva strappandoci dalle tenebre. Ricordiamo che il nome di Gesù significa Dio salva. Quest’opera sarà compiuta una volta per tutte da Gesù quando avrà portato le sue creature alla vita eterna.
La forma dell’infinito del verbo ‘asah qui usato è la’assot, che può essere tradotto con fare, da fare, per fare. Infatti, Dio ha creato, ha dato la vita alle sue creature e le mantiene in vita, ma questo implica ancora l’opera che consiste a condurle dalle tenebre alla piena luce, è per questo che le ha create, affinché partecipino della piena luce, affinché le creature possano accogliere pienamente la vita, l’amore di Dio. Per cui nel primo capitolo della Genesi è dell’opera di Dio che si parla, cioè di come ci conduce dalle tenebre alla luce, questo è il tema principale, non la creazione, il fatto che crei. Il testo infatti ci dice dapprima che Dio crea e poi che la sua opera, il suo fare nella creazione, consiste a condurla verso la luce e questa opera sarà completata al settimo giorno in cui non ci saranno più tenebre e Dio riposerà in noi e noi in lui. Dio opera in questo mondo per condurre le sue creature che sono nelle tenebre verso la luce del suo amore.
Per questo Gesù ricorda che Dio, con la sua Parola, continua a guidare i suoi figli verso la luce, non li abbandona alle tenebre:
«Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Giovanni 5, 17).
Dio ha creato e continua la sua opera fino al giorno in cui i suoi figli riposeranno pienamente in lui, ecco il settimo giorno, in cui il sole non tramonterà, in cui la luce avrà dissipato le tenebre, in cui Dio avrà compiuto la sua opera, ciò che era “da fare”. Questo è anche paragonato nella Bibbia al lavoro dei genitori che guidano il bambino piccolo che non sa ancora parlare o camminare, fino all’età adulta. Anche noi siamo bambini piccoli quando nasciamo tramite la fede e il battesimo alla nuova vita di figli di Dio e ci lasciamo guidare da Dio verso la sua luce.
Così, creando, Dio ci dà la vita, ci conduce dal nulla all’essere e ci mantiene nell’essere per la vita eterna, una volta che la sua opera è compiuta. Questa opera è designata dal verbo ‘asah, fare. Quindi, questo versetto ci dice che Dio ha creato e che la sua creazione è eterna. Ma ci dice anche che quando l’opera che compie nella creazione per condurre le creature alla contemplazione della piena luce è compiuta, allora la sua opera cessò, Dieu cessò di fare ciò che era da fare, si riposò perché l’opera della salvezza era compiuta. Si vede bene allora la differenza fra fare e creare. Il verbo fare (‘asah עָשָׂה) designa l’azione divina in ciò che ha creato e quest’azione cessa quando l’opera della salvezza è compiuta in questo mondo. Il verbo creare (bara’ בָּרָא), invece, designa l’atto eterno di Dio. È Dio perché crea, perché eternamente il suo amore consiste a dare vita, a donare la sua vita.
- Ecco il significato della parola shavat (שָׁבַת), cessare. Ma questo cessare come diventa riposo? Quando per ognuno di noi questa vita terrena si conclude e rimettiamo la nostra vita nelle mani di Dio, con piena fiducia, allora la sua opera di salvezza è compiuta, non deve più condurci dalle tenebre alla luce. Entrati quindi nella fiducia dei figli di Dio, possiamo riposare nel seno del Padre e lui può riposare in noi per aver compiuto la nostra opera di salvezza. Per questo è detto che ha cessato l’opera di ciò che ha creato “da fare”, o “per fare”, cioè di ciò che necessita di essere condotto alla sua perfezione, al suo culmo, alla piena luce. Ci dona la sua vita e ci rende capaci di accoglierla nella sua pienezza. Modella il ricettacolo del suo spirito, che siamo noi, come un vaso di argilla, infonde in noi il suo spirito: sta a noi dilatare i nostri polmoni per accoglierlo pienamente, sta a noi lasciarci riempire, colmare da Dio.
«Poiché Dio, che disse: “Dalle tenebre risplenderà la luce”, risplendette nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della sua gloria, che rifulge sul volto di Cristo. Ma questo tesoro lo portiamo come in vasi di argilla; così si vede bene che questa straordinaria potenza appartiene a Dio e non viene da noi». (2 Corinzi 4, 6-7).
- L’opera di Dio manifestata nella natura:
In questo 7° giorno, il sole splende per sempre, non ci sarà tramonto. Ecco ciò che le immagini della natura ci manifestano, una luce che brilla per sempre.
Vediamo quindi come questa luce eterna ci parla dell’infinito di Dio e della nostra contemplazione della sua gloria.
Le parole di Dio a Mosè, quando prescrive di rispettare lo shabbat, fanno una distinzione tra il compito mala’khah, che è l’opera divina di condurre gli uomini alla luce, a cui possiamo associarci, mossi dallo stesso amore e il lavoro di schiavo (‘abd), cioè ciò che ci rende schiavi. Ciò che ci rende schiavi è il male, l’incatenamento delle violenze. Il giorno dello shabbat ricorderemo il riposo di Dio perché ha compiuto la sua opera di salvezza e noi ci lasceremo servire da lui, perdonare, riconciliarci e, ovviamente, in quel giorno ci asterremo dal commettere il male, nessuna ingiustizia verso il nostro prossimo, come era stato annunciato, esplicitato, quando Gesù proclamò l’anno sabbatico che era venuto a portare sulla terra.
Il giorno dello shabbat l’uomo non farà mala’khah (מְלָאכָה) e non farà opere di schiavo (‘avodah עֲבֹדָה).
«Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Per sei giorni lavorerai (ta’vod תַּֽעֲבֹד) e farai tutta la tua opera (mala’khtekha מְלַאכְתֶּךָ); ma il settimo giorno è il giorno di riposo, il sabato in onore del Signore tuo Dio: non farai alcuna opera (mela’kha מְלָאכָה), né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né i tuoi animali, né l’immigrato che è nella tua città. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che contengono, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha santificato.» (Esodo 20, 8-11)
Ecco quindi che all’uomo è proibito svolgere un lavoro da schiavo, il verbo ‘abad indica il lavoro del servo (‘abd) e la parola mala’khah piuttosto l’opera, il compito da svolgere.
Il giorno dello shabbat celebra sulla terra la realtà divina della realizzazione dell’opera di Dio: ha condotto la creazione alla contemplazione della sua luce. In questo giorno, quindi, l’umanità è invitata a cercare di vivere, anche solo per un breve istante, questa pace, in cui non solo l’uomo non lavora, ma si astiene da ogni opera di schiavo, cioè si astiene dal fare ciò che è male perché è il male che ci rende schiavi. Il riposo di questo giorno è quindi il momento in cui si vive una comunione tra esseri umani riuniti dall’amore di Dio alla stessa tavola, nella condivisione, nei legami fraterni. Anticipazione della gioia definitiva del cielo.
Ora, nel primo versetto di questo secondo capitolo della Genesi, si dice: “E i cieli e la terra furono completati e tutto il loro esercito”. Cosa si deve intendere con la parola “esercito”? I cieli e la terra hanno un esercito? Secondo la tradizionale interpretazione dei Padri della Chiesa, si tratta dell’esercito celeste degli angeli che compie la missione divina di aiutare gli esseri umani nel loro cammino verso Dio, sono i messaggeri, gli inviati di Dio. La parola angelo si dice in ebraico mal’ak, una parola abbastanza simile a mala’khah. Anche gli angeli, infatti, partecipano volontariamente e non come schiavi dell’opera divina di condurre l’umanità alla salvezza, alla pace e alla luce. Ma anche sulla terra gli esseri umani che sono diventati come stelle, grazie all’esempio di amore per il prossimo e di fede che hanno potuto offrire al mondo, svolgono liberamente questo compito, quest’opera divina di aiutare l’umanità a camminare verso di lui. Non si tratta di un lavoro da schiavi, si tratta di essere associati al volere di Dio di salvare l’umanità. Accogliendo il suo spirito, il dono della vita di Dio, l’essere umano condivide il suo volere e desidera anch’egli associarsi liberamente alla sua opera di salvezza. Diventa anche un portavoce di Dio sulla terra, compie una missione da angelo. La parola angelo in greco (ἄγγελος) significa colui che annuncia, che porta una notizia. Il termine « vangelo » significa « buona notizia », la buona novella dell’amore di Dio per l’umanità, vittorioso del male e della morte. Ecco quindi la buona notizia che gli apostoli (termine che significa « inviato ») sono mandati a portare al mondo attraverso l’esempio della loro vita offerta per amore a immagine di Cristo:
«Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo. E per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.» (Giovanni 17, 18-19).
Ecco quindi che un giorno tutta l’opera di Dio sarà compiuta: Gesù avendo dato la sua vita e rivelato con la sua risurrezione la vittoria dell’amore divino sul male e sulla morte e gli angeli e gli esseri umani che avranno condiviso il volere di Dio, esercito del cielo e della terra, risplenderanno come stelle nel firmamento, godranno per l’eternità della pace di Dio.
Dio regna e ha rimesso il suo regno nelle mani di suo figlio, Gesù. La parola re indica colui che ha sottomesso i suoi nemici, cioè che ha vinto il male. In ebraico la parola re si dice melekh (מֶלֶך), una parola simile a mala’khah: il suono aspirato ‘aleph non è presente, l’opera è compiuta, il regno è eterno, siamo entrati nel riposo di Dio.
Il settimo giorno ci parla del Regno dei cieli, della vita divina delle creature accanto a Dio, colme di gioia, piene del suo amore l’una per l’altra. Ma si tratta, appunto, di una realtà spirituale, di una gioia, di condividere la santità di Dio, l’esperienza dell’amore di Dio. È così che quando Gesù vuole parlarci del Regno di Dio, deve usare immagini perché è difficile rappresentarsi una realtà spirituale. (Vedere l’articolo Matteo 13 Le parabole del Regno). In queste parabole si parla del seminatore e del seme che porta frutto, della rete gettata in mare e dei pesci pescati, ma anche altrove Gesù ci parla di un pranzo nel Regno e degli invitati al pranzo. (Vedere l’articolo Luca 14, 15-24 Gli invitati al pranzo). In tutte queste immagini, si tratta sempre di pienezza: si riuscirà a riempire la sala del banchetto? La rete riuscirà a contenere tutti i pesci? Il seme darà frutto al cento per cento? Riassumendo, tutte queste immagini ci dicono che ogni creatura è invitata a condividere la gioia del Regno, che ognuno è invitato a entrare nel Regno, nella gioia eterna. Ognuno è invitato a vivere questa gioia già sulla terra facendo l’esperienza dell’amore per il prossimo, del dono della propria vita. Bisogna entrare in questa realtà celeste quando si è ancora sulla terra, è lì che il nostro cuore deve aprirsi per accogliere il prossimo, per vivere come fratelli e sorelle, come membra di uno stesso corpo. È ora che l’amore può dare tutta la sua misura, la sua intensità, essendo più forte delle prove, mostrando la misura della misericordia di Dio, anche verso i propri nemici. È sulla terra che l’essere umano può essere condotto alla piena esperienza dell’amore di Dio, alla pienezza, è ora che può scegliere di amare nonostante ogni difficoltà. Questa scelta e questa vita saranno la sua gloria per l’eternità, saranno rivelate e risplenderanno come la luce.
È per questo che il Padre è sempre all’opera e anche la sua Parola, Cristo: per farci gustare questa gioia. Spetta a noi, sulla terra, rispondere al suo invito di entrare nel Regno dei cieli. Questo ingresso non avviene al momento della nostra morte, ma partecipando alla gioia divina di amare come Lui ama, sulla terra come in cielo. Si tratta di chiedere che questo Regno di Dio venga nel nostro cuore, regni, domini, vinca tutte le nostre rivalità, gelosie, odi, mancanze di fiducia, mancanze di amore. Per questo Gesù, insegnandoci a pregare, ci invita a chiedere che il suo regno venga e che venga dentro di noi, mentre siamo sulla terra.
«Voi dunque pregate così: Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non lasciarci entrare in tentazione, ma liberaci dal male. Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il vostro Padre celeste perdonerà anche a voi. Ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.» (Matteo 6, 9-15)
Qui, nel racconto del settimo giorno, così come nel Padre Nostro, si parla di santificazione perché nel Regno di Dio tutto è santo: il male, le tenebre, sono scomparsi. Questa realtà che rimarrà per sempre, eternamente, è quindi da cercare già sulla terra, è qui che siamo invitati a condividere questa felicità, a entrare nella gioia di Dio. Infatti, Gesù ci dice che questo Regno si è avvicinato a noi, che dobbiamo cambiare i nostri pensieri, i nostri cuori per entrarvi:
«Cambiate i vostri pensieri, perché il Regno di Dio si è avvicinato a voi.» (in greco: Μετανοεῖτε, ἤγγικεν γὰρ ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν.) (Matteo 3, 2).
È in Gesù che risiede pienamente il Regno di Dio, questo perfetto amore per tutti e tutte, è lui che si è avvicinato a noi, affinché anche noi possiamo entrare in questo Regno, partecipare dello stesso amore per il nostro prossimo. La parola greca, solitamente tradotta con “convertirsi”, significa letteralmente cambiare il modo di pensare (metanoéō, in greco μετανοέω).
Quindi, una volta che ci saremo lasciati illuminare dalla luce, dalla bontà divina, che avrà dissipato le nostre tenebre, allora il Regno di Dio si stabilirà nei nostri cuori, perché il Regno di Dio è dentro di noi, ci dice Gesù:
«Il Regno di Dio è dentro di voi» (in greco: ἡ βασιλεία τοῦ Θεοῦ ἐντὸς ὑμῶν ἐστιν). (Luca 17, 21).
Ma il compito, l’opera (mela’khah מְלָאכָה) che le creature devono compiere viene dopo quella che Dio ha compiuto. Questa missione, alla quale si uniscono angeli, profeti e apostoli, è rivelare agli esseri umani ciò che Dio ha compiuto per loro. Si tratta di condurre il prossimo all’amore che viene da Dio, essendo noi stessi testimoni di questo amore, abitati da questo amore. Si tratta di indicare l’origine di questo amore in Dio, in Colui che ci ha amati per primo, affinché anche noi possiamo attingervi a nostra volta.
Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti, ci dice:
«Nessuno può attribuirsi nulla se non ciò che gli è stato dato dal cielo. Voi stessi potete testimoniare che ho detto: Io non sono il Cristo, ma sono stato mandato davanti a lui… Lui deve crescere e io diminuire» (Giovanni 3, 27-28.30).
«Io vi battezzo nell’acqua per la conversione. Ma colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non sono degno di togliergli i sandali. Egli vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco.» (Matteo 3, 11).
Gli angeli, i profeti, gli apostoli guidano l’umanità verso Cristo, verso Dio, verso la speranza di essere amati, perdonati. Essendo un riflesso del suo amore in questo mondo, aprono i cuori degli esseri umani all’amore, a credere che questo amore esiste e si dona a tutti coloro che gli apriranno la porta.
Dio si riposa da tutto ciò che ha intrapreso per condurre gli uomini alla luce. Gesù ha accettato e compiuto questo pesante compito quando ha scelto di entrare a Gerusalemme per dare la vita.
«Padre mio, se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà!» (Matteo 26, 42).
Ecco che Gesù compie ciò che era necessario per salvare l’umanità a costo della sua vita. Questo pesante compito, quest’opera di salvezza, cesserà quando gli esseri umani potranno finalmente contemplare il volto di Dio.
Così, anche per gli uomini, non si tratta di caricarsi di questo peso nel giorno dello shabbat, questo giorno deve essere un segno sulla terra di felicità eterna, ogni opera essendo già compiuta da Cristo, l’opera della salvezza, la vittoria sul male, attraverso la sovrabbondanza del perdono. In questo giorno, ci lasciamo servire da Dio, partecipiamo del suo riposo nel pranzo che ha istituito per essere UNO con lui, nel rendimento di grazie, l’Eucaristia.
In questo giorno, l’umanità è invitata ad anticipare il pranzo del cielo, quello in cui siamo a tavola con Dio, avendo condiviso il suo volere, il suo desiderio di essere tutti riuniti nell’amore come fratelli e sorelle:
«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; vi chiamo amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi.» (Giovanni 15, 15).
Si tratta quindi, in questo giorno, di ricordare la vittoria di Cristo sul male e sulla morte, è lui che ha compiuto quest’opera, che si è assunto volontariamente questo compito. È lui che ha vinto il male per primo con la sovrabbondanza della sua misericordia. A noi spetta ricevere questa perdono, cioè il dono del suo rinnovato amore, di esserne riempiti e di fare lo stesso. In lui è la fonte di questo amore. Così, l’essere umano che si era separato da Dio, dalla fonte della vita, l’essere umano che viveva nelle tenebre, può ora accogliere il perdono di Dio, entrare di nuovo nella sua alleanza, attingere nuovamente alla fonte della vita. Ora che Gesù ci ha ristabilito nell’alleanza con Dio, ora che ci chiama suoi amici, possiamo condividere la sua volontà, associarci liberamente al servizio della sua volontà, fare e compiere la sua volontà sulla terra, per condurre l’umanità a liberarsi dalla schiavitù per mezzo di Cristo, accogliendo la sua salvezza e condividendo così la sua vittoria sul male.
Cristo ha vinto il male una volta per tutte, sta a noi accogliere il beneficio di questa vittoria, il suo perdono, e condividere così questa vittoria facendo lo stesso verso il nostro prossimo, perdonando anche noi. Volendo metterci liberamente al servizio di Dio, affronteremo anche rischi e lotte, ma questo al fine di aprire una breccia nel cuore indurito degli esseri umani, affinché possano sperare nella salvezza promessa da Dio.
«Così, con la pratica della Legge, nessuno diventerà giusto davanti a Dio. Infatti, la Legge fa solo conoscere il peccato. Ma oggi, indipendentemente dalla Legge, Dio ha manifestato in cosa consiste la sua giustizia: la Legge e i profeti ne sono testimoni. E questa giustizia di Dio, data dalla fede in Gesù Cristo, è offerta a tutti coloro che credono. Infatti, non c’è differenza: tutti gli uomini hanno peccato, sono privati della gloria di Dio, e lui, gratuitamente, li rende giusti per sua grazia, in virtù della redenzione compiuta in Cristo Gesù. Perché il progetto di Dio era che Cristo fosse strumento di perdono, nel suo sangue, per mezzo della fede. È così che Dio ha voluto manifestare la sua giustizia, lui che, nella sua longanimità, aveva chiuso gli occhi sui peccati commessi in passato.» (Romani 3, 20-25)
In effetti, non possiamo perdonarci da soli, spetta a noi invocare questa perdono da Dio e lui ce lo offre, gratuitamente, con la gioia del padre che accoglie il figlio che è tornato da lui (vedi l’articolo Luca 15, 11-32 Il figliol prodigo). Ecco ciò che si celebra nel giorno di riposo, la riconciliazione con Dio, l’unione con lui nel rendimento di grazie, l’eucarestia (dal greco eucharistéō εὐχαριστέω ringrazio, rendo grazie, sono riconoscente).
Questa perdono ci permette anche di riconciliarci gli uni con gli altri. Tutto questo è riassunto nell’ultima richiesta del Padre Nostro, dove i figli di Dio, dopo aver ricevuto il suo perdono, pieni del suo amore, si riconciliano gli uni con gli altri.
«Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non lasciarci entrare in tentazione, ma liberaci dal male.» (Matteo 6, 12-13)
- L’opera di Dio manifestata e compiuta nella persona di Gesù e nella Chiesa, costituita dalle membra del corpo di Cristo:
È il pranzo eucaristico inaugurato da Gesù che sarà celebrato dai cristiani nel giorno di riposo. Questo pranzo riunisce i discepoli affinché ricevano il perdono da parte di Gesù, il perdono che ha offerto alla moltitudine accettando di versare il suo sangue sulla croce:
«Poi, avendo preso un calice e reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza, versato per la moltitudine in remissione dei peccati.”» (Matteo 26, 27-28).
Il giorno dello shabbat, il giorno del riposo di Dio, ci lasciamo servire da lui, perdonare, riconciliare da lui, riunire a lui da una nuova ed eterna alleanza.
«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per la moltitudine.» (Marco 10, 45).
Accogliamo quindi questa vita, donata affinché l’umanità abbia la pace, nel perdono di Dio, cioè nel rinnovato dono della sua amore, offerto a tutti coloro che vengono a lui per riceverlo, gratuitamente. Ricevere il perdono di Dio non significa solo che le colpe sono cancellate, ma molto di più: significa poter ricevere nuovamente il dono della vita divina da cui l’umanità si è separata allontanandosi da Dio, dubitando della gratuità del suo amore. Accogliere il dono di Dio significa essere ristabiliti nell’alleanza, nella piena comunione con Lui, ricevere la sua vita significa essere accolti come suoi figli, partecipare del suo stesso spirito:
«Nel giorno solenne in cui si concludeva la festa, Gesù, in piedi, esclamò: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, chi crede in me! Come dice la Scrittura: “Dal suo seno sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Dicendo questo, egli si riferiva allo Spirito Santo che avrebbero ricevuto coloro che avrebbero creduto in lui. Infatti, non poteva esserci lo Spirito, poiché Gesù non era ancora stato glorificato.» (Giovanni 7, 37-39).
Infatti, prima che Gesù morisse sulla croce, l’umanità non aveva ancora ricevuto il suo Spirito, cioè il dono della sua vita, il dono rinnovato dell’amore di Dio che non ha guardato ai nostri meriti ma ha dato la sua vita per tutti noi. Questa vita ci rivela il suo amore e ci riempie a nostra volta di amore, di riconoscenza, di gratitudine e di fiducia filiale: anche noi possiamo rimettere la nostra vita nelle sue mani, fiduciosi nella sua misericordia.
Il riposo del giorno di Shabbat prima dell’avvento di Cristo celebrava quindi la vittoria della luce sulle tenebre. Questa vittoria si è rivelata in Gesù Cristo ed ecco che il 7° giorno è diventato il passaggio dell’essere umano alla piena luce, dove può contemplare il volto di Dio, l’immensità della sua misericordia. Questo giorno fa quindi entrare l’essere umano nell’eternità di Dio, questo giorno è diventato per i cristiani il passaggio all’ottavo giorno, quello di un tempo che si trova al di là del nostro tempo, il tempo della risurrezione, della vita eterna. Questa vita è già iniziata in coloro che hanno ricevuto il perdono di Dio e sono stati così introdotti nella vita eterna.
«Chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha mandato, ottiene la vita eterna e sfugge al giudizio, perché già passa dalla morte alla vita.» (Giovanni 5, 24).
I cristiani hanno quindi celebrato il Venerdì Santo, il giorno in cui Cristo è morto sulla croce, il Sabato ha riposato nella tomba e, entrando nella morte per noi, ci ha strappati alla morte, al male, e ci ha così permesso di entrare nella pace di Dio, nella risurrezione che viene quindi celebrata la Domenica, rappresentando così un ottavo giorno, un giorno in cui l’essere umano non vive più secondo il modo terreno, un giorno fuori da questo mondo, in cui l’essere umano anticipa già la realtà eterna, spirituale, della sua vittoria definitiva sul male. In questo giorno, non è più permesso lavorare, non è più permesso fare opere servili, ma solo fare il bene. Ecco quindi Gesù che, compiendo un miracolo nel giorno dello shabbat, ne spiega il significato:
«Gesù disse loro: “Vi domando: è lecito, nel giorno di sabato, fare il bene o fare il male? salvare una vita o perderla?” Allora, volgendo lo sguardo su tutti loro, disse all’uomo: “Stendi la mano”. Egli lo fece, e la sua mano tornò normale.» (Luca 6, 9-10).
Ecco dunque che l’uomo la cui mano era inaridita e che non poteva lavorare per il bene è guarito.
C’è quindi un momento per lasciarsi servire da Dio, per accogliere l’amore di Colui che ci ha amato per primo, che ha compiuto l’opera della salvezza. Un momento per riposare in Lui.
«Quanto a noi, amiamo perché Dio stesso ci ha amati per primo.» (1 Giovanni 4, 19).
«Gesù, sapendo che il Padre ha rimesso tutto nelle sue mani, che egli è uscito da Dio e che va verso Dio, si alza da tavola, depone il suo vestito e prende un panno che si lega alla cintura; poi versa dell’acqua in una bacinella. Poi cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il telo che aveva alla cintura. Arrivò così a Simon Pietro, che gli disse: «Signore, tu mi lavi i piedi?». Gesù gli rispose: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Pietro gli disse: «Non mi laverai mai i piedi!» Gesù gli rispose: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». (Giovanni 13, 4-8)
«Mentre era in cammino, Gesù entrò in un villaggio. Una donna di nome Marta lo accolse. Aveva una sorella di nome Maria che, sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta, invece, era impegnata nelle molteplici occupazioni del servizio. Intervenne e disse: «Signore, non ti dispiace che mia sorella mi abbia lasciato fare il servizio da sola? Dille di aiutarmi.» Il Signore le rispose: «Marta, Marta, ti preoccupi e ti agiti per molte cose. Una sola è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.» (Luca 10, 38-42).
Ecco alcuni esempi di coloro che si sono lasciati servire da Gesù, che hanno accolto Colui che viene a salvarci, a lavarci dai nostri peccati e a farci sedere a tavola con Lui, affinché noi siamo in Lui e Lui in noi.
Quindi, quest’opera di Dio (mala’khah) è giunta al settimo giorno alla sua pienezza, al suo culmine: un regno pieno, colmato dagli inviati, dai messaggeri di Dio, dagli angeli, dagli apostoli, dagli esseri umani che riflettono la luce di Dio che contemplano, riconciliati con Dio e fra di loro. Tornando così al primo versetto: «E i cieli e la terra furono completati e tutto il loro esercito» (Genesi 2, 1), vediamo questo regno pieno di angeli e di esseri umani che hanno compiuto la loro missione di annunciare la vita del Regno dei cieli. Gli uomini che hanno vissuto sulla terra, considerando ogni essere umano come un fratello o una sorella, hanno diffuso la buona novella con l’esempio della loro vita. Nei primi secoli della Chiesa, anche i vescovi che presiedevano una comunità erano chiamati “angeli”.
Ecco cosa ci dice Gesù stesso:
«Ma coloro che sono stati giudicati degni di avere parte alla vita futura e alla risurrezione dai morti non prendono né moglie né marito, perché non possono più morire: sono come gli angeli, sono figli di Dio e figli della risurrezione.» (Luca 20, 35-36)
Ora, è attraverso la fede che si nasce alla nuova vita di figli di Dio, questo è ciò che significa il battesimo, il passaggio dalla morte alla vita, alla nuova vita di figli di Dio che attingono tutti la loro vita, il loro amore, alla stessa sorgente divina. Riconoscendo quindi un’unica sorgente all’origine di ogni vita, sono pronti ad accogliere un fratello o una sorella in ogni essere umano. Essere figlio di Dio, vivere come figlio di Dio, non deve essere inteso in senso restrittivo, perché ogni essere umano che farà l’esperienza di donare la propria vita al prossimo, farà l’esperienza dello stesso amore divino, che lo faccia da credente o meno.
Infatti, Gesù stesso ci dice che quando coloro che non lo conoscono risorgeranno, sentiranno dire che l’amore che hanno portato al loro prossimo sarà stato per loro una vera esperienza dell’amore di Dio, un vero incontro con Dio, anche se non ne erano consapevoli.
Ecco il dialogo tra Gesù e la folla di coloro che, pur non conoscendolo sulla terra, hanno fatto comunque l’esperienza dell’amore che li rende simili e partecipi di Dio.
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, allora siederà sul suo trono di gloria. Tutti i popoli saranno radunati davanti a lui; egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre: metterà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi sin dalla fondazione del mondo. Perché avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete accolto; ero nudo e mi avete vestito; ero malato e mi avete visitato; ero in prigione e siete venuti da me! Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto …? Avevi fame e ti abbiamo dato da mangiare? Avevi sete e ti abbiamo dato da bere? Eri straniero e ti abbiamo accolto? Eri nudo e ti abbiamo vestito? Eri malato o in prigione … Quando siamo venuti da te? ” E il Re risponderà loro: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me.”» (Matteo 25, 31-40)
Questa armata celeste di portatori della buona novella, nella quale risplendono la vita e l’amore di Dio, è quindi formata dagli angeli e da coloro che sono diventati come angeli, riflesso dell’amore di Dio sulla terra, attraverso le loro opere.
- L’opera di Dio manifestata nel singolo membro del corpo di Cristo:
Si noti che il racconto del 7° giorno, in cui Dio completa la sua opera, non termina con la consueta constatazione dei primi sei: “fu sera e fu mattina”. In effetti, si tratta di un passaggio definitivo dalle tenebre alla luce. Questa volta è la luce di Dio stesso che risplende in ognuno di noi.
«La notte sarà finita, non avranno più bisogno né della luce di una lampada né della luce del sole, perché il Signore Dio li illuminerà; regneranno per i secoli dei secoli.» (Apocalisse 22, 5).
Si tratta quindi di entrare nel riposo di Dio, nella Gerusalemme celeste dove solo l’amore di Dio sussiste tra i suoi figli.
È il Regno di Dio, il Regno dei cieli, in cui i nostri cuori, il nostro spirito, possono già dimorare. Possiamo già entrare, fin da questa vita, nel Regno dei cieli. Si stabilisce in noi quando in noi stessi viviamo questa riconciliazione, questo accoglienza incondizionata del nostro prossimo, è allora che il Regno dei cieli è in noi. Questo Regno è Gesù Cristo stesso, in cui regna l’amore, in cui si è compiuto il trionfo della luce sulle tenebre, in cui solo la luce rimane. Egli ci invita costantemente ad entrarvi, ad entrare in questa realtà spirituale nella quale tutti noi formiamo uno, membra di uno stesso corpo, di una stessa famiglia.
«In verità vi dico: se non cambiate per diventare come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Ma chi si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie un bambino come questo nel mio nome, accoglie me.» (Matteo 18, 3-5).
Gesù ci invita a ritrovare la fiducia dei bambini nei loro genitori, la benevolenza dei bambini che offrono il loro sorriso a tutti, senza distinzione tra ricchi, poveri, giovani, vecchi, concittadini o stranieri. I bambini, i più piccoli, ci offrono un altro sguardo sulla vita, accolgono con gratuità e fiducia l’amore dei loro genitori. Gesù ci invita così a ritrovare questa fiducia in Colui che ci ha dato la vita e ad accogliere in ciascuno un fratello, una sorella.
Questo desiderio di formare un’unica e nuova famiglia si ritrova durante tutta la vita di Gesù:
«”Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” Poi, stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli. Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, quello è per me un fratello, una sorella, una madre.”» (Matteo 12, 48-50)
Allo stesso modo, nelle sue ultime parole sulla croce, Gesù si rivolge a Maria, sua madre, chiamandola «donna», perché chi riceve la vita di Dio attraverso la fede forma una nuova famiglia, dà alla luce nuovi figli, generati a una nuova vita e riuniti in una nuova famiglia attraverso la fede:
«Gesù, vedendo sua madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”.» (Giovanni 19, 26-27).
E poi, prima di esalare l’ultimo respiro, Gesù disse: «Tutto è compiuto», così si conclude l’opera della creazione. Là dove Dio vide che era cosa molto buona e poi si riposò da tutto ciò che aveva fatto. È lì che anche noi entriamo nel regno di Dio, nel riposo di Dio, nel settimo giorno, quando per il suo amore, per la vita che ci ha dato, siamo uno con lui e fra di noi, come membra di un unico corpo, realizzando la sua opera di pace, luce e bellezza.
Secondo le parole di Dio rivolte al popolo ebraico da Mosè, Dio invita i credenti a entrare nella sua pace. Questo è un invito a vivere già sulla terra un giorno in cui l’essere umano si astiene dal fare opere cattive, si riconcilia e celebra in gruppo, in comunità, nella gratitudine, ciò che Dio ha creato per essere in pace, amore reciproco, per essere nella gioia eterna. Si tratta di anticipare sulla terra la piena realizzazione dell’opera di Dio, dove il male sarà definitivamente sconfitto. Ecco le parole di Dio riportate da Mosè:
«Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Per sei giorni lavorerai e farai tutta la tua opera; ma il settimo giorno è il giorno di riposo, shabbat in onore del Signore tuo Dio: non farai nessun’opera, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né i tuoi animali, né l’immigrato che è nella tua città. Poiché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che contengono, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di shabbat e lo ha santificato.» (Esodo 20, 8-15).
Lavoro da servo, se sei schiavo di opere malvagie, oppure missione di apostoli, di inviati, se lavori per il nel Regno di Dio per portare la luce di Dio sulla terra.
Nel vocabolario di Gesù il lavoro da schiavo è l’opera malvagia, essere schiavi del male: «Gesù disse loro: “Vi domando: è lecito, il giorno di shabbat, fare del bene o fare del male? salvare una vita o perderla?”» (Luca 6, 9)
Una volta alla settimana, i credenti sono invitati a vivere un momento di grazia, come se fossero già in cielo. Ma non è tutto, non solo sono invitati ad assaporare questa pace celeste una volta alla settimana, ma c’era anche una prescrizione nell’Antico Testamento che li invitava a smettere di lavorare per un anno intero, ogni sette anni, e a nutrirsi dei frutti della terra. E, ancora di più, dopo aver contato 7 volte sette anni, nel corso del cinquantesimo anno, ogni essere umano ritrova la sua libertà, non è più obbligato a lavorare e ritrova persino la proprietà delle sue terre. Questo cinquantesimo anno è chiamato anno giubilare:
«Il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai e disse: “Parla ai figli d’Israele. Dirai loro: Quando entrerete nel paese che vi do, la terra osserverà un riposo sabbatico per il Signore. Per sei anni seminerai il tuo campo, per sei anni potrai la tua vigna e raccoglierai i prodotti della terra. Ma il settimo anno sarà un sabato, un sabato solenne per la terra, un sabato per il Signore: non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna, non mieterai ciò che è cresciuto da solo dall’ultimo raccolto e non raccoglierai i grappoli della tua vigna non potata; sarà un anno sabbatico per la terra. Ciò che la terra avrà fatto crescere durante questo riposo sabbatico, ve ne nutrirete, tu, il tuo servo, la tua serva e il salariato o l’ospite che risiede presso di te. Tutti i suoi prodotti serviranno da cibo per il vostro bestiame e per gli animali che sono nel paese. Conterete sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni, cioè quarantanove anni. Il settimo mese, il dieci del mese, nella festa del Grande Perdono, suonerete il corno per l’ovazione; quel giorno, in tutto il vostro paese, suonerete il corno. Farete del cinquantesimo anno un anno santo e proclamerete la liberazione per tutti gli abitanti del paese. Questo sarà per voi il giubileo: ognuno di voi rientrerà nella sua proprietà, ognuno di voi tornerà nella sua famiglia. Questo cinquantesimo anno sarà per voi un anno giubilare: non seminerete, non mieterete il grano che sarà cresciuto da solo, non vendemmierete la vite non potata. Il giubileo sarà per voi cosa sacra, mangerete ciò che cresce nei campi. In questo anno giubilare, ognuno di voi rientrerà in possesso della sua proprietà.» (Levitico 25, 1-13).
L’essere umano è stato creato per gustare questa pace, questa armonia, ma è vero che su questa terra cio è difficile da realizzare, eppure è questo che Gesù è venuto a compiere: condurre l’essere umano alla piena realizzazione della pace di Dio, strapparlo all’oscurità, alla divisione, all’odio, alla violenza. La vera libertà di cui ci parlerà sarà quella di essere liberati dal male, dall’ incatenamento delle violenze, attraverso il perdono. È in quel momento che i ciechi vedranno, che gli esseri umani nell’oscurità troveranno la luce della pace, se saranno pronti a riconciliarsi. Ritroveranno l’udito se comprenderanno la felicità a cui li conducono le parole di Dio. Si alzeranno e cammineranno davanti a Dio e agli uomini quando opereranno per la giustizia. Ecco, dunque, che Gesù è venuto veramente per compiere quest’anno di benefici, quest’anno giubilare. È venuto per liberare l’essere umano da ciò che lo teneva prigioniero. Ciò che i profeti avevano annunciato, ma che gli esseri umani non riescono a compiere, lo realizzerà per loro, li condurrà verso questo anno giubilare che nessuno riesce a realizzare sulla terra. Ecco le sue parole pronunciate nella sinagoga di Nazareth:
«Quando Gesù, nella potenza dello Spirito, tornò in Galilea, la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe e tutti lo lodavano. Venne a Nazaret, dove era cresciuto. Come era sua abitudine, entrò nella sinagoga il giorno di sabato e si alzò per fare la lettura. Gli fu consegnato il libro del profeta Isaia. Aprì il libro e trovò il passo in cui è scritto: «Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione. Mi ha mandato a portare la Buona Novella ai poveri, a proclamare ai prigionieri la loro liberazione, ai ciechi che riacquisteranno la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare un anno favorevole concesso dal Signore». Gesù chiuse il libro, lo restituì al servitore et si sedette. Tutti nella sinagoga avevano gli occhi fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete appena ascoltato.» (Luca 4, 14-21)
Ecco Gesù che annuncia l’anno giubilare, l’anno favorevole concesso dal Signore. È il Regno dei cieli che è venuto, sceso, fino a noi affinché possa regnare nei nostri cuori, affinché la pace tra i figli di Dio regni nel cuore di ognuno. Così, questo giorno dedicato all’anticipazione di questa vita del Regno dei cieli sulla terra, questo giorno di comunione e di pace che veniva celebrato il giorno dello Shabbat, cioè il settimo giorno della settimana, il sabato, trova con l’avvento di Cristo una nuova realizzazione. Infatti, entrare nel Regno dei cieli significa passare a una nuova vita, significa morire al male e condividere la vittoria di Cristo sul male e sulla morte che può regnare nei nostri cuori anche quando siamo vivi. Questo passaggio dalla morte alla vita, celebrato nel battesimo, unisce il credente alla morte di Cristo, avvenuta il Venerdì Santo, e lo fa passare, attraverso il riposo nel sepolcro del Sabato, alla Domenica della Resurrezione. Ma questa nuova vita di resurrezione significa già il nostro ingresso nella vita eterna fin da questa terra, entriamo nella relazione filiale eterna con Dio, il Padre di ogni vita. Così, la domenica, giorno della resurrezione, sarà chiamata dagli antichi cristiani l’ottavo giorno, un giorno al di fuori del nostro tempo terreno, che ci fa entrare nell’eternità di Dio, nella pace eterna accanto a lui.
Così, quando Gesù, durante i suoi pellegrinaggi, incontra famiglie in lutto, che gli mostrano il loro defunto, dirà che questi riposa. Questo è ciò che accade nel dialogo con la sorella di Lazzaro: Gesù dice che Lazzaro riposa e lei protesta che è morto da quattro giorni e che già puzza. Ma Gesù parla di un riposo presso Dio, di una vita che non conosce la morte, ma si trasforma per andare verso la contemplazione di Dio. Gesù dice esplicitamente nel Vangelo:
«In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte» (Giovanni 8, 51).
D’altra parte, le persone in buona salute possono benissimo essere morte spiritualmente, tagliate fuori dalla relazione d’amore con il prossimo, tagliate fuori dalla fonte di vita eterna, di gioia e di amore che è in Dio.
«Gesù disse a Marta: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà mai. Credi tu questo?”» (Giovanni 11, 25-26)
Gesù ci introduce alla vita del Regno, ci fa rinascere alla relazione filiale e fiduciosa con Dio, sorgente di vita eterna. Questo è significato dal battesimo. Ma poi, colui che è nato a vita nuova tramite la fede, dovrà anche crescere, nutrirsi, avrà bisogno di un cibo che lo radichi nella fede, cioè che lo aiuti a mettere in pratica ciò in cui crede. Entrare nella vita eterna significa entrare in una realtà spirituale in cui siamo tutti fratelli e sorelle gli uni degli altri.
Intraprendere un tale cammino che propone amicizia, perdono, dove ci sono offesa, divisione, rivalità, non è un cammino facile, quante volte sarà al di sopra delle nostre forze? È a questo scopo che Gesù offre un nutrimento che rafforzerà i nostri legami di amore, di amicizia. Questo cibo realizza un’unione tra gli esseri umani e Dio, cioè con Gesù che si è fatto uno di noi affinché potessimo essere uniti a lui. Così, durante l’ultima cena, prenderà del pane, formato da una moltitudine di semi, e dandolo ai suoi discepoli, dirà: “Questo è il mio corpo”. Ciò implica che mangiandolo come un vero cibo, così come incorporiamo questo cibo che sarà assunto dalle cellule del nostro corpo, allo stesso modo potremo assumere la vita divina in noi e l’amore di Dio potrà riunirci come i chicchi di grano sono riuniti per formare un unico pane. Questo pranzo sacro rende gli esseri umani partecipi della divinità che è amore, gli esseri umani pieni dell’amore di Dio non possono fare altro che formare un unico corpo animato dalla vita e dall’amore divino. Assumendo questo cibo, unendoci a Cristo, diventiamo membra del suo corpo, diventiamo membra gli uni degli altri, gli uni al servizio degli altri.
E Gesù prenderà anche il calice pieno di vino, anch’esso formato da una moltitudine di chicchi d’uva, per significare che, come un goccia d’acqua versata nel vino si trasforma in vino, così la nostra umanità partecipa della vita divina che si diffonde in noi come il sangue che circola nelle nostre vene portatore di vita. Il calice di vino, il colore del sangue, sarà anche l’immagine di Cristo che accetta la passione, accetta di versare il suo sangue per amore per noi e a coloro che accolgono il dono della sua vita, fa il dono di essere figli di Dio.
Tutto questo sarà celebrato dai cristiani nel giorno della domenica. Questo giorno sarà lo shabbat dei cristiani, cioè il giorno in cui smettono di lavorare per incontrarsi.
Gesù spiega anche a lungo ai giudei del suo tempo cosa significa originariamente lo shabbat. Significa astenersi da ogni lavoro da schiavi, ciò significa che la nostra schiavitù, ciò che ci tiene prigionieri è l’incatenamento delle violenze, è il male. Gesù, il Cristo, viene a liberare gli esseri umani da questa schiavitù, quindi, nel giorno che celebra il Regno dei cieli sulla terra, ciò da cui bisogna astenersi è fare il male, per vivere una comunione più grande con il prossimo, per diventare uno, partecipando tutti allo stesso pranzo, nutrendosi dello stesso cibo che rafforza i nostri legami di amore fraterno, quel cibo che ci rende membra di uno stesso corpo.
Infatti, il pranzo eucaristico, cioè l’azione di grazie, fu inaugurato da Gesù la sera in cui il popolo ebraico faceva memoria della Pasqua ebraica. Questo antico rituale celebra il giorno in cui il popolo fu liberato dalla schiavitù in terra d’Egitto e si lasciò condurre da Dio verso la terra promessa. La schiavitù materiale, fisica, di questo popolo sotto il giogo del Faraone è diventata un’immagine della realtà spirituale dell’essere umano asservito alle opere cattive, al male, e la sua liberazione è diventata l’immagine del passaggio a una nuova vita in cui il perdono di Dio, cioè il dono rinnovato della sua vita, suggella con noi una nuova alleanza, introducendoci in un rapporto filiale con lui. (Vedi l’articolo Il pranzo eucaristico).
Così, proprio come nel settimo giorno della creazione, Dio completa la sua opera che consiste nel condurre l’essere umano dalle tenebre alla luce, alla piena comunione e unione con lui. Allo stesso modo, Cristo ci introduce al pranzo dell’alleanza e della gratitudine, in cui si vive l’unione delle creature con Dio e, attraverso di lui, l’unione delle creature tra loro grazie alla vita che ricevono da Dio.
Questo pranzo che riunisce gli esseri umani tra loro e li unisce a Dio nella gratitudine celebra proprio il giorno dello shabbat, il giorno del riposo. Il giorno in cui il credente rimette e affida la sua anima a Dio per riposare in lui. Questo è anche il riposo di Dio, riguardo al quale Gesù dice che Dio può così dimorare in noi.
Sta a noi aprire la porta, lasciarlo entrare, allora ci servirà e noi saremo in lui e lui in noi. È la pace e la tranquillità del pranzo di azione di grazie per tutto ciò che Dio fa per noi che ci permette di vivere la relazione filiale e fiduciosa.