Genesi 1, 1 Bereshit

Nella testa di Dio (bereshit), Genesi 1, 1

Possiamo entrare nella mente di Dio, penetrare il suo spirito, la sua volontà? Se non è Lui a rivelarcelo, ciò è impossibile all’uomo. Ecco ciò che Egli stesso ci dice per bocca dei profeti, ecco le parole che la tradizione attribuisce a Mosè.

Genesi, capitolo 1, versetto 1

בְּרֵאשִׁית, בָּרָא אֱלֹהִים, אֵת הַשָּׁמַיִם, וְאֵת הָאָרֶץ

Bereshit (in ciò che è nella testa) creò Elohim il cielo e la terra.

André Chouraqui, intellettuale ebreo nato nel 1917 in Algeria e morto nel 2007 a Gerusalemme, è autore di una traduzione molto letterale della Bibbia che mette in luce il significato etimologico di ogni parola. Ecco la sua traduzione di questo versetto: «NELLATESTA Elohims creava il cielo e la terra».

Prima di addentrarci nella lettura dell’opera dei sei giorni, è necessario sapere che i giorni in Dio, nella sua testa, nel suo proposito, nel suo lógos, non sono come i nostri giorni. Il Salmo 90, v. 4 ci dice: «mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri che passa», che tutta la vita dura solo un istante.

Ebbene, sono molti coloro che hanno cercato di spiegare questa prima parola della Bibbia e ogni spiegazione amplia la nostra visione alle dimensioni di Dio, ma come misurarne l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità…? come ci dice san Paolo (Lettera agli Efesini 3, 18).

La prima parola della Bibbia in ebraico è: בְּרֵאשִׁית (bereshit), le lettere che la compongono sono state raggruppate in molti modi diversi. Ecco la lettura più semplice e più comune nella lingua ebraica: בְּ (be) significa “in”, רֵאש (resh) deriva dalla parola רֹאש (rosh) “testa” e ית (it) è il suffisso che si usa per formare un aggettivo o un avverbio, qui usato per indicare che si parla di qualcosa di relativo alla testa.

Vedremo adesso degli estratti di alcuni commentatori della Bibbia che hanno avuto un ruolo importante nella trasmissione di una tradizione interpretativa. Troveremo infatti, con varianti proprie a ciascuno e a ciascuna cultura, ebraica, greca e cristiana, alcuni criteri e principi fondamentali per avvicinarci alla lettura di un testo che ci parla dell’opera di Dio.

Per comprendere meglio questi approcci al primo versetto della Bibbia e la comprensione della sua prima parola, eccone la traduzione greca e latina:

᾿Εν ἀρχῇ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν.

Nell’arkhế Dio creò il cielo e la terra

In principio creavit Deus caelum et terram

In principio Dio creò il cielo e la terra

Per affrontare la lettura degli autori greci e latini che hanno commentato questi versetti, ecco alcune parole chiave (arkhế, lógos, génesis, principium, verbum) nella loro lingua originale, insieme a tre passaggi di Aristotele su arkhế, il cielo, le cause: Lessico dei commenti alla Genesi 1, 1

Ecco l’elenco degli autori di cui saranno trattati alcuni estratti, ciascuno in un articolo diverso:

Antico giudaismo:

Filone di Alessandria (Alessandria 25 a.C. – 50 d.C.)

Cristianesimo, tradizione greca:

Origene (Alessandria 185 circa – Tiro 253 circa)

Basilio di Cesarea (Cesarea di Cappadocia, attuale Kayseri, 329 – 379)

Gregorio di Nissa (Neocesarea, attuale Niksar, tra il 331 e il 341 – 394)

Cristianesimo, tradizione latina:

Ambrogio di Milano (Treviri 339-340 – Milano, 397)

Agostino, (Tagaste, attuale Souk Ahras in Algeria, 354 – 430 a Ippona, attuale Annaba in Algeria)

Giudaismo, al tempo del Rinascimento:

Itshaq Abravanel (Lisbona 1437 – 1508 Venezia)

Notiamo inoltre che questi autori hanno integrato nella loro cultura continui riferimenti alla filosofia greca, motivo per cui ho raccolto in un articolo un lessico con alcuni testi di Aristotele che riassumono alcune concezioni del mondo e del tempo che ritroviamo nel corso dei secoli presso filosofi e commentatori ebrei, cristiani, arabi e persiani.

Alcune riflessioni e domande fondamentali si ritrovano in diversi autori: perché Dio ha creato il mondo? La sua comprensione non è la nostra, Dio è al di fuori del tempo e dello spazio. La sua volontà di condividere la sua felicità con le creature, di riempirle della sua stessa vita, gioia, amore è inscritta nella sua eternità.

Questi autori, credenti di diverse tradizioni e culture, dialogano con i filosofi, alcuni dei quali hanno affermato che il mondo è eterno perché in Dio non c’è una successione di idee, Egli non cambia. Tuttavia, i credenti ebrei, cristiani e musulmani saranno attenti a preservare il libero arbitrio di Dio: se ha deciso di dare la sua vita alle creature, questo fa parte di Lui, è eternamente inscritto nel suo essere che è amore, la creazione è frutto dell’iniziativa di Dio, il tempo e la materia sono creati dal nulla. Ma come potrebbe il linguaggio umano rendere conto di ciò che non ha né prima né dopo? Quanto è inadeguato il nostro discorso, che ha bisogno di tempo per svilupparsi, avanzare, a rendere conto dell’eterno, di ciò che esiste prima del tempo e prima dello spazio.

Così, quando i testi profetici parlano di Dio, bisogna tenere conto di questa dimensione in cui il tempo, il prima e il dopo non esistono, in cui il nostro linguaggio ci parla dell’invisibile a partire da immagini visibili, come dice Gregorio di Nissa. E se è Dio che parla il linguaggio degli uomini, è anche perché queste parole e le immagini, gli oggetti, le realtà a cui si riferiscono sono fatti per parlare di Lui, a condizione di cercare di mettersi al suo posto e di rendere le nostre realtà terrene e i nostri modi di esprimerci compatibili con il suo amore eterno e immutabile, che non conosce né vendetta né punizione. Dio non può che esprimere la sua volontà eterna di rendere l’uomo partecipe della sua vita, della sua pienezza, della sua felicità. Questo fine dell’atto creatore e la bontà del Creatore sono sempre ricordati e riassunti nei commenti di Filone di Alessandria e dei Padri della Chiesa dei secoli successivi.

Nelle innumerevoli traduzioni, nel corso dei secoli, bereshit è stato tradotto in modi diversi, i più comuni dei quali sono: «All’inizio», «In principio», quindi ciò che è in testa, che viene prima, che precede, ma anche ciò che ha una precedenza in termini di importanza, come il principio fondamentale su cui si basa un’affermazione.

Nella traduzione greca della Bibbia, la traduzione fatta ad Alessandria intorno al 270 a.C., chiamata dei Settanta (saggi), bereshit è stato tradotto con Ἐν ἀρχῇ (En arkhế ). La parola ἀρχή (arkhế) offre un ampio spettro semantico: si tratta del principio che è all’origine di qualcosa, per i filosofi greci è anche il principio che fa sussistere qualcosa, la causa del suo essere. Questo termine copre anche il concetto di autorità, colui che è il primo è anche colui che guida e comanda, vedi i termini arcangelo, arconte, ecc. In Aristotele troviamo un’analisi delle diverse accezioni di questo termine. Proprio ad Alessandria, la città dove la Bibbia era stata tradotta in greco e dove fioriva la cultura ellenistica, un sapiente ebreo, conoscitore delle opere dei filosofi greci, ci offre anche i suoi commenti su questa parola: si tratta di Filone di Alessandria (Alessandria 25 a.C. – 50 d.C.). Filone fa riferimento al testo greco della Bibbia e si esprime anche in questa lingua. Possiamo così vedere, a partire da alcuni estratti del suo commento sulla creazione del mondo, come le sue osservazioni inaugurano la riflessione e la comprensione di questo testo da parte dei primi grandi commentatori cristiani.

Nei passaggi analizzati, Filone osserva subito che la creazione non può essere collegata al tempo, poiché il tempo non esisteva prima del mondo. Introduce quindi l’idea della creazione di un mondo intelligibile e di un mondo sensibile e afferma che il mondo sensibile è creato secondo il modello intelligibile e che Dio, essendo buono, comunica la sua bontà alla creatura. Infatti, egli afferma, il mondo intelligibile è lo stesso lógos di Dio, il suo Verbo interiore, e il mondo, creato a immagine e somiglianza di Dio, porta l’impronta dell’arkhế di Dio.

Sempre ad Alessandria, Origene (Alessandria, 185 ca. – Tiro, 253 ca.) svilupperà anche le spiegazioni su questa prima parola della Bibbia, passando in rassegna, come Filone, i molteplici significati della parola arkhế . Da queste prime letture dell’inizio del libro della Genesi emerge quindi che la parola bereshit, o arkhế nella sua traduzione greca, colloca il racconto al di fuori del tempo, nella saggezza e nell’atemporalità di Dio che concepisce l’opera della creazione nella sua eternità.

Con Origene, entriamo nell’esegesi cristiana, quindi, dopo aver riaffermato che questa creazione ha luogo nel lógos di Dio, che crea e ordina tutto, egli concluderà che questo lógos è Cristo, i cui nomi sono arkhế e saggezza del Padre. A tal fine, farà riferimento all’inizio del Vangelo di Giovanni, che dice: «Nell’arkhế era il lógos». Ancora una volta vengono passati in rassegna i diversi significati di arkhế nella cultura greca e arkhế viene collocata al di fuori del tempo nella saggezza, nel pensiero e nella conoscenza di Dio. Come Filone, anche Origene usa l’esempio dell’architetto che progetta l’opera da realizzare. Nella mente dell’architetto, nel suo progetto, si trovano i lógoi di ogni creatura futura. I lógoi, plurale di lógos, corrispondono a ciò che il lógos di Dio concepisce in sé stesso quando chiama ogni creatura all’esistenza. Questi lógoi determinano ogni creatura ad essere ciò che è, concetto che sarà sviluppato anche da altri interpreti della Genesi, qui Gregorio di Nissa e Agostino.

Entriamo così nelle considerazioni sul lógos di Dio. Questa parola evoca la logica, il pensiero, il ragionamento di Dio e anche ciò che è espressione della sua volontà, la sua parola, il suo Verbum, diranno i latini. Poiché Dio concepisce nel suo pensiero, ciò che pensa esiste. Ciò che la sua parola, il suo lógos interiore formula, acquista esistenza. Dio dice e così è, ci dicono sia la Bibbia che il Corano.

Questa riflessione sull’atemporalità di Dio, del suo pensiero, della sua parola, della sua saggezza eterna, iniziata nelle discussioni talmudiche, fu quindi trasposta nel mondo della cultura greca ad Alessandria, dall’ebreo Filone, poi dai cristiani come Origene e altri. Successivamente, nel IV secolo, furono i cristiani di Cappadocia a svolgere un ruolo importante nella trasmissione delle riflessioni su questo testo e nella sua comprensione.

Vedremo, in particolare, alcuni estratti dei commenti all’opera dei sei giorni scritti da due fratelli vescovi: Basilio di Cesarea (Cesarea di Cappadocia, attuale Kayseri, in Turchia, 329-379) e Gregorio di Nissa (Neocesarea, attuale Niksar, tra il 331 e il 341-394). Questi ultimi hanno svolto un ruolo fondamentale nella formulazione della fede cristiana riassunta nel Concilio di Costantinopoli (maggio-luglio 381), presieduto dal loro grande amico, il vescovo Gregorio di Nazianzo.

Per Basilio, le diverse accezioni della parola arkhế ci dicono proprio che tutto è stato fatto nell’arkhế , che le caratteristiche di arkhế si trovano proprio nel lógos creatore che è inizio, ordine, fondamento e principio di tutto ciò che esiste, secondo l’affermazione del Vangelo: «In arkhế era il lógos».

Gregorio di Nissa, come già Basilio, ci segnala un’altra traduzione della parola ebraica bereshit: si tratta della parola en kephálaioi, usata dal cristiano Aquila al posto di arkhế. Letteralmente significa «nella testa», ma qui è usata per sottolineare la totalità di ciò che è creato. Mosè ha nominato alcune delle opere create, ma tutte sono in grado di condurci dal visibile all’invisibile, al creatore stesso. Egli tiene tuttavia a mantenere i due termini kephálaion e arkhế per la loro complementarità: il primo ci dice che Dio ha concepito tutti gli esseri insieme e il secondo ci dice che ciò è avvenuto prima dell’inizio del tempo. Dopo aver collocato il racconto biblico nella dimensione eterna di Dio, ci parla della modalità di questa creazione, opera del logos di Dio. È l’occhio divino che «ha contemplato tutte le cose prima della loro genesi», dice, citando il libro di Daniele 13, 42. L’istantaneità dell’intera creazione è richiamata dall’esempio del fuoco e della luce che si diffondono ovunque in un istante. Questo lógos come la luce riempie la creazione e illumina ogni creatura, in modo tale che l’intera creazione riflette la gloria del creatore e ne racconta la grandezza perché ci rimanda a lui. Tutto suscita meraviglia e supera la nostra comprensione: come possono il fuoco e la luce diffondersi in questo modo, per quale mistero? Solo Dio che genera il lógos senza pronunciare parola lo sa.

Sono stati i padri cappadoci, ma anche l’esegesi dei commentatori alessandrini, il giudeo Filone e il cristiano Origene, a costituire il punto di riferimento del vescovo Ambrogio a Milano. Il ruolo di Ambrogio in Occidente, nel mondo latino, è stato parallelo a quello dei Cappadoci in Oriente. Anche lui convocò un concilio ad Aquileia nel settembre del 381. Qui riprese le affermazioni del Concilio di Costantinopoli e offrì all’Occidente commenti biblici che rendevano conto della tradizione interpretativa di Alessandria e della Cappadocia.

Ambrogio è un ponte tra Oriente e Occidente, nel suo commento riprende le affermazioni tradizionali trasmesse dai padri di espressione greca e le sintetizza. Le rende anche più accessibili, nella sua preoccupazione di istruire grandi e piccoli: sarà il catechista di Agostino e anche un predicatore e un pacificatore acclamato dalla folla. Nel brano studiato, egli afferma fin dall’inizio che Dio è prima dell’inizio del mondo, che è lui stesso questo inizio, poiché il Figlio di Dio afferma di essere lui stesso arkhế, principio primordiale, origine del mondo creato. Egli si preoccupa di spiegare bene a coloro che scoprono il cristianesimo che Cristo è il creatore, non secondo un modello preesistente, ma come colui che ha dato alle cose create il loro inizio. Seguono le spiegazioni tradizionali dei diversi significati della parola «principium», il principio che è prima di tutte le cose. Ambrogio riporta anche la traduzione greca della parola ebraica originale con kephálaion, ricordando che Dio ha creato tutta questa bellezza, compresi gli angeli, in un istante, dal nulla. E che la bellezza del mondo ci rimanda al suo creatore, il visibile all’invisibile, come dice il Salmo 18, 1: «I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani». Come già Basilio, egli tiene a precisare che questo atto creatore non è il risultato di un’emanazione involontaria, come l’ombra che accompagna il corpo, ma il frutto della volontà e del libero arbitrio divino.

Grazie ad Ambrogio, Agostino (Tagaste, attuale Souk Ahras in Algeria, 354 – 430 a Ippona, attuale Annaba in Algeria) scoprirà a Milano la riflessione e l’interpretazione cristiana della Bibbia e la svilupperà in seguito, ritrovando in lui i tratti comuni agli altri e alcuni sviluppi.

Agostino ci ha lasciato tre trattati sul libro della Genesi, il più ampio dei quali è “La Genesi alla lettera”. Da buon filosofo, Agostino dedica le prime pagine di questo trattato, e di un altro trattato rimasto incompiuto, a spiegare i principi interpretativi di questo testo antico. Per ogni evento narrato nell’Antico Testamento, si tratta di preservare la storicità del fatto narrato, ma anche di ricavarne un significato figurato situato nell’eternità di Dio, che annuncia l’opera futura di Cristo e della Chiesa, fornendo agli uomini una riflessione morale, dei principi di condotta. Egli si interroga quindi sul significato delle parole, una per una. Innanzitutto sulla prima parola della Bibbia, in latino, In principio. Dobbiamo intenderla come il principio del tempo o come l’autore stesso di questa creazione, il Verbum di Dio, che opera questa creazione ed è il Figlio generato da Dio nell’eternità, come la parola interiore è generata dallo spirito? Quale significato dare all’espressione cielo e terra, bisogna vedere in essa la creazione delle creature celesti e terrestri, spirituali e corporee? O piuttosto una materia che deve ricevere la sua forma a immagine e somiglianza di Dio, in cui ogni essere trova il compimento e la ragione del suo essere? Questo processo attraverso il quale la creatura è condotta alla piena somiglianza, sarebbe significato dalla creazione della luce, che ci conduce alla visione di Dio e ci trasforma? La creatura che si volge così verso Dio ne è trasformata, illuminata, condotta alla pienezza. Diversi tempi della creazione emergono così secondo i sensi della Scrittura che ne presiedono la lettura.
1. Un senso letterale che, soffermandosi sull’espressione «in principio», ci colloca prima della creazione, al di fuori del tempo, poiché il tempo stesso è una creatura. Agostino colloca quindi in questo principium, in questa origine di tutto che è Dio stesso, la creazione simultanea del cielo e della terra che include quella degli esseri spirituali e corporei.
2. Un senso eterno in cui Agostino contempla l’opera del lógos, Verbum, Parola creatrice di Dio che conferisce a tutta la creazione la sua forma compiuta.
3. Un senso figurato in cui è annunciata l’opera di Cristo, parola creatrice, Verbum divino che si è fatto carne, annunciato e figurato dal racconto della Genesi. Con la sua parola e il suo esempio, egli conduce le creature ad essere luce e riflesso della gloria di Dio.
4. Un senso morale perché Dio chiama la creatura a sé e la invita a seguirlo, in questo continua la sua opera di creazione fino ad oggi, senza cessare di chiamare a sé le sue creature, perpetuando la sua Parola creatrice in ogni istante, mantenendo l’ordine del cosmo.

È necessario comprendere lo sforzo di coloro che hanno cercato di parlare del mistero di Dio e che hanno anche sostenuto che il mondo è eterno, poiché nel piano di Dio questo mondo è sempre esistito e la sua volontà non conosce cambiamenti di opinione. Personalità e credenti come Ibn Rushd (Averroè) hanno cercato di spiegarci che anche se il mondo non avesse avuto un inizio, ciò non toglierebbe nulla all’azione di Dio che lo crea comunque con la sua azione eterna, che lo mantiene in vita e lo fa sussistere ora. Altrimenti come potremmo esistere? Esisterebbe un altro mondo non creato da Dio, non voluto da Lui? (citazioni a seguire)

Una grande figura persiana, il filosofo, medico ed esperto di tutte le scienze Ibn Sinâ (Avicenna), seguendo altri filosofi come Al-Farabi o Al-Kindi, commentando i testi di Aristotele sull’eternità del mondo, si interroga sulle modalità della creazione. Da musulmano credente, ha a cuore la salvaguardia dell’atto creatore e afferma quindi che questo mondo proviene da Dio. Come già avevano notato i commentatori cristiani Basilio e Ambrogio, ad esempio, affermare un atto creatore eterno potrebbe far pensare all’assenza di una volontà creatrice, all’emanazione naturale di questo mondo dalla natura divina, come l’ombra emana dal corpo. Ibn Sinâ (Avicenna) avrà quindi cura di conservare all’atto creatore la sua origine nella volontà di Dio da cui proviene. Nei suoi testi arabi e persiani, quindi, Ibn Sinâ (Avicenna) non usa il termine emanazione (fa’îdh), la cui definizione eliminerebbe il concetto di volontà e scelta. Questo termine sarà introdotto in seguito, da Al-Ghazali quando riassumerà le idee di Ibn Sinâ (Avicenna) per criticarle nel suo trattato scritto in arabo, il Tahâfut al-Falasifâ, la Distruzione della filosofia. Questo trattato sarà tradotto in latino e avrà un ruolo importante nella ricezione e talvolta nell’erronea comprensione della filosofia di Ibn Sinâ (Avicenna) in Occidente. Purtroppo, questo trattato conserverà anche in latino la traduzione della parola fa’îdh, emanazione, nella presentazione dei commenti di Ibn Sinâ (Avicenna) sul tema della creazione.

Per i cristiani sarà quindi necessario riaffermare in quel periodo la volontà dell’atto creatore di Dio a partire dal racconto biblico. Infatti, potrebbe Dio non volere ciò che ha scelto: dare vita al mondo, trasmettere alle creature il proprio soffio vitale? È certo che la scelta di Dio è libera e che nessuno lo costringe a ciò, ma questo atto è anche espressione della sua volontà, opera del suo Verbum, della sua parola di saggezza, perché Egli dice e così è. A livello degli esseri umani una parola può anche essere ingannevole, menzognera, ma in Dio non può che essere l’espressione perfetta della sua essenza, della sua saggezza e quindi della sua volontà di associare le creature alla propria vita, alla propria felicità, alla propria gioia, al proprio amore.  San Tommaso d’Aquino, fervente lettore dei commentatori arabi dell’opera di Aristotele, ripeterà l’antico assioma utilizzato anche dai filosofi neoplatonici e da Dionigi l’Areopagita: «Bonum est diffusivum sui» nei suoi commenti alle Sententiae (lib. 3 d. 24 q. 1 a. 3 qc. 1 ad 2).

Itshaq Abravanel (Lisbona 1437 – 1508 Venezia), in un lungo commento alla Torah, ci racconta la storia dell’esegesi ebraica di questo versetto a partire dalla Mishna e dal Talmud. Negli estratti che ho scelto lo vediamo dialogare con i filosofi greci e arabi con i quali ha in comune il fatto di non intendere la sequenza dei giorni della creazione come una sequenza cronologica, inserita nel tempo, ma critica l’idea di una materia prima preesistente.

Bibliografia:

In principio, Interprétations des premiers versets de la Genèsei, Etudes Augustiniennes, Parigi, 1973

Arche, A collection of patristic studies by J.C.M. Van Winden, Brill, 1997