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- Padre nostro: pronunciare queste parole presuppone che i fedeli riconoscano che la vita di ogni creatura proviene dalla stessa fonte. Dicendolo, il fedele accetta ogni essere umano come proprio fratello o sorella. Per l’uomo, poter chiamare Dio Padre è un privilegio concesso da Cristo che, perdonandogli le sue colpe, lo rende degno della filiazione divina.
- Sia santificato il tuo nome: che sia celebrata la gloria di Dio, cioè l’immensità del suo amore, proclamandola, ma anche rendendola visibile, manifestandola agli uomini con l’esempio della propria vita: è nella vita di ogni persona che si rivela lo spirito che la anima.
- Venga il tuo regno: il regno di Dio è presente quando gli uomini sono uniti tra loro da vincoli di amore fraterno. Questa realtà è alla portata di tutti nella misura in cui accogliamo nel nostro cuore i nostri vicini, amici e nemici. Il regno dei cieli sceso sulla terra è Cristo, nel quale contempliamo il legame d’amore che unisce Dio a ciascuna delle sue creature.
- Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: la realtà del regno dei cieli è presente fin da ora nella misura in cui viviamo l’amore per il prossimo e possiamo accogliere sempre più uomini e donne come fratelli e sorelle, come avviene in cielo dove questa accoglienza si realizza pienamente.
- Dacci il pane immanente, il pane che viene dall’alto. Si tratta di essere nutriti dalla parola di Dio, di confidare nella sua parola, nelle sue promesse. La parola di Dio si è fatta carne in Gesù Cristo. Offrendo la sua vita per il perdono degli uomini, ha stretto un’alleanza con loro e ha dato il suo corpo e il suo sangue come cibo, per suggellare un’alleanza eterna con gli uomini in un pasto di comunione, dove l’umanità è unita alla divinità. Il pane che è il corpo di Cristo, offerto agli uomini nell’ultima cena, che ha anticipato la sua morte sulla croce, è un vero cibo; è il pane disceso dal cielo (epioúsios).
- Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori: ricevere il dono dell’amore di Dio, accogliere il suo amore nel nostro cuore, significa essere mossi da questo stesso amore, renderlo visibile al mondo a sua volta, offrendo al nostro prossimo la stessa misericordia che abbiamo ricevuto.
- Non lasciarci entrare nella prova: la vita è una prova che rivela in ogni momento lo spirito che anima ciascuno di noi. Ogni momento è un’opportunità per vivere nello spirito dell’amore, per essere vivificati e appagati da esso, mostrandolo agli altri. In ogni momento gli esseri umani possono vivere per il bene o per il male, scegliere di amare o meno. Lo scopo della prova è quello di portare alla piena fiducia nella fedeltà del Padre, che aiuta il bambino a crescere, lo prende per mano nei momenti di difficoltà e lo riempie del suo amore. La prova è un’occasione per crescere, per sperimentare un amore più grande, per avere l’opportunità di provare e mostrare anche il suo amore. Pregare di non entrare nella prova significa pregare che questa prova non porti mai alla disperazione, ma alla fiducia, a non dubitare mai della preoccupazione del Padre per i suoi figli.
- Rendici vincitori sul male, salvaci, liberaci, che il male non prevalga , ma si manifesti in noi la vittoria dell’amore, della luce sulle tenebre. Questa è la forza del dono della fiducia, del per-dono offerto a chi ha offeso, e che, offerto all’infinito, è vittorioso del cuore indurito. È questa frase che ci aiuta a capire che le prove non devono portare alla disperazione, ma alla fiducia. È un’affermazione di questa speranza, fiducia e fede nell’assistenza divina del Padre.
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Versioni aramaiche del Padre nostro
Giovanni 6, 22-59 Il pane disceso dal cielo
Padre nostro: la relazione filiale
Gesù stesso insegna a pregare e nelle sue parole rivela la natura del legame che unisce l’uomo a Dio. Questo legame è l’origine e lo scopo della vita umana. Questo legame è quello che unisce i genitori ai figli: i genitori vogliono trasmettere il meglio di sé ai figli e vogliono che i figli fioriscano e crescano in armonia e pace, che siano colmati di ogni bene. E quando hanno più figli, vogliono che ognuno sappia di essere amato con lo stesso amore, che possano crescere insieme aiutandosi a vicenda e che i legami dell’amore fraterno li rafforzino e siano fonte di gioia. Gesù invita così i figli di Dio a entrare in una relazione filiale con lui; invita i suoi fratelli e sorelle umani ad avere piena fiducia in colui che ha dato loro la vita e che è pieno di preoccupazione per loro. Li invita a esprimere le loro richieste, spiegando che Dio sa di cosa hanno bisogno prima che glielo chiedano, ma è solo chiedendo che il bambino vive pienamente la relazione filiale, che esprime la sua fiducia. È grazie a questa fiducia che il figlio sarà aiutato dal padre; si tratta di dargli la mano e di lasciarsi guidare quando non conosce la strada o quando sta attraversando un passaggio difficile. Si tratta di ascoltare le parole del Padre e di metterle in pratica per crescere in saggezza e sperimentare a sua volta la gioia di amare e dare la vita per i propri amici. Gesù stesso riassume il senso dell’insegnamento del Padre: “Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e che la vostra gioia sia completa. La mia esortazione è questa: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato” (Giovanni 15:11-12). Queste sono le ultime raccomandazioni del padre ai suoi figli, le sue ultime volontà, che riassumono tutto il suo insegnamento, tutta la saggezza che ha voluto trasmettere loro. Gesù insegna ai suoi fratelli a pregare per questo, a chiedere al padre del cielo, che ha dato vita a tutto ciò che esiste, di poter realizzare le sue volontà e di aiutarci a farlo.
Sia santificato il tuo nome:
Il Padre sarà glorificato dal riflesso che i suoi figli daranno di lui in questo mondo; daranno gloria al padre, cioè manifesteranno la sua gloria e la sua grandezza, mostrando al mondo tutto l’amore e la sapienza che hanno ricevuto da lui, essendo a immagine del padre. Si tratta di manifestare questa filiazione divina, gli esseri umani non nascono solo sulla terra, ma l’origine della vita stessa si trova nella realtà celeste di Dio. Gesù invita gli esseri umani a nascere dall’alto: “Ciò che è generato dalla carne è carne e ciò che è generato dallo spirito è spirito. Non meravigliatevi se vi dico che bisogna nascere dall’alto” (Giovanni 3, 6-7). Gli esseri umani nascono quindi due volte: una dai genitori e una dallo spirito che dà vita ai figli e ai genitori. Questo spirito viene dall’alto e rende tutti gli esseri umani a immagine e somiglianza di Dio: capaci di amare, perché Dio è amore (1 Giovanni 4, 8). Ora, l’intero Padre Nostro è un invito a vivere pienamente il legame che unisce le creature al loro padre celeste, e a non dimenticare la fonte di ogni vita, di ogni amore. Dare gloria a Dio, santificare il suo nome attraverso vite guidate dal suo spirito d’amore, è allo stesso tempo onorare i nostri genitori e mostrare ciò che l’umanità ha ricevuto da Dio.
Il regno dei cieli:
Come i cieli circondano la terra, così la provvidenza divina, che vede l’insieme di tutte le sue creature, provvede ai bisogni di ciascuna. Come i cieli forniscono la luce del sole, la pioggia e l’aria che danno vita alla terra, così il padre del cielo conosce i bisogni dei suoi figli e provvede a loro. Ma qual è il vero bisogno dei suoi figli? È lo spirito d’amore, è il soffio divino che è già stato dato a ciascuno, ma dal quale i figli si separano, è la fonte di vita alla quale i figli non attingono più. Questa vita divina risiede nel legame d’amore che unisce l’uomo a Dio e l’uomo all’uomo. È questo spirito che ci lega tutti. Se questo legame è vissuto nel ringraziamento, nella fiducia e nell’amore reciproco, allora è la pace del regno dei cieli, dove Dio è tutto in tutti. Affinché Dio sia tutto in tutti, ognuno deve essere tutto amore per i suoi fratelli e sorelle, così come Dio è tutto amore per ogni persona. Dobbiamo essere capaci di contemplare l’immagine del Padre in ognuno. È allora che Dio regna nel cuore dell’uomo, quando egli riflette lo sguardo del padre sui suoi fratelli e sorelle. Lo scopo della vita è realizzare il regno dei cieli, vivere nello spirito dell’amore per i fratelli e le sorelle, affinché la volontà del Padre di condurre i suoi figli alla gioia perfetta si compia sulla terra, così come si realizza nella realtà celeste, dove il legame d’amore che unisce padre e figlio è l’espressione di uno scambio perfetto in cui la volontà del padre viene perfettamente accolta dal figlio nella fiducia, permettendogli di accogliere la pienezza dell’amore paterno, di manifestarlo alle sue creature e di restituirgli nell’azione dí grazie l’amore di cui è stato colmato. Questo è il mistero di unità dell’unica ousía divina in tre hupostáseis (μία οὐσία, τρεῖς ὑποστάσεις), il mistero dell’unità di Dio nella relazione d’amore trinitaria.
Il pane epioúsios: questa comunione d’amore nell’eterna relazione che unisce il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo è anche quella a cui gli uomini sono invitati a partecipare. Lo spirito d’amore che è in Dio e che è il legame che unisce il Padre e il Figlio, è anche quello che dà vita al mondo per amore, per volontà di condividere tutto con le sue creature. Questo gesto d’amore è espresso dalla parola di Dio che si è fatta carne. Questa parola, che esprime perfettamente la volontà del Padre, è la parola che associa gli esseri umani alla vita di Dio. Questo amore, la cui massima espressione è il dono della propria vita, è espresso in parole e in verità dal figlio che ha assunto la natura umana e ha dato la sua vita. In questo, ha creato: attraverso questa parola tutto è stato fatto. Questa parola è il pane disceso dal cielo che dà vita all’umanità. Ricevere la comunione con questo pane significa accogliere la vita che Dio offre all’umanità nell’azione di grazie, cioè animati dallo stesso spirito di fiducia filiale che viene dato gratuitamente al figlio ed è restituito al padre nella gratitudine: è un amore gratuito che unisce padre e figlio. Quando gli esseri umani, nutriti dal pane che scende dal cielo, diventano membra dello stesso corpo, il corpo del Figlio, accettano l’amore con cui sono amate in tutta la sua gratuità e, ringraziando, lo restituiscono al Padre. La grazia è ciò che viene dato gratuitamente: in latino le parole grazia (gratia) e gratuito (gratis) hanno la stessa origine, per questo l’amore di Dio si chiama carità, dal greco kháris, che significa anche grazia. La carità (charitas) è l’amore gratuito che unisce i genitori ai figli, i figli ai genitori e gli amici e i fratelli tra loro. Ciò che le persone vogliono sempre dimostrare l’una all’altra è la gratuità del loro amore, non dettato da interessi o calcoli, ma dalla gioia reciproca di stare insieme, di essere uno. La comunione al pane che Cristo dona agli apostoli nell’ultima cena è la realizzazione di questo mistero, in cui Dio dona la sua vita agli uomini e gli uomini lo accolgono nel ringraziamento, riuniti come fratelli e sorelle alla stessa tavola, condividendo lo stesso cibo. Per questo, in entrambi i testi evangelici, quello di Matteo e quello di Luca, Gesù invita a chiedere un pane che, in greco, si chiama epioúsios, un pane che riguarda l’ousía, un pane che viene dall’alto perché è il padre a darlo. Il valore di queste parole in greco è spiegato in dettaglio da uno dei primi padri di la Chiesa: Origene (vedi Origene sul Padre Nostro). L’etimologia della parola epioúsios può essere intesa in due modi diversi:
1. ciò che arriva, ciò che si verifica (sottinteso il giorno successivo)
2. ciò che riguarda l’ousía, “ciò che è” (sottinteso dio, perché ciò che “è” è eminentemente l’essere di dio).
Gli uomini, dunque, chiedono al padre che è nei cieli di dare loro oggi del pane, del cibo, del vero cibo. Di che pane si tratta? Che significa epioúsios? In ogni caso, si tratta di un pane che viene da Dio, un pane che viene dal cielo. Questo pane viene dalla sollecitudine di Dio per i suoi figli; egli sa meglio di loro di cosa hanno bisogno. Così fornisce sia il necessario per la vita quotidiana sia ciò che ci nutre della la sua vita divina, ciò che ci fa vivere con il suo amore. Nella misura in cui questo cibo, spirituale o materiale, viene ricevuto nel ringraziamento, l’uomo è unito nello stesso spirito con Dio, dal santo spirito di fiducia filiale, di gratitudine, ritrovato nella misura in cui la creatura riscopre il legame fiducioso di amore gratuito che la unisce al suo creatore. È questo il pane che Gesù offre ai suoi apostoli nell’Ultima Cena, dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19) (vedi Il pranzo eucaristico). È il pane di cui parlava Gesù quando diceva: “Il pane di Dio è quello che scende dal cielo e dà vita al mondo… Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà mai sete… Io sono il pane, il vivente che è disceso dal cielo: se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. (Giovanni 6, 33-34.51). (cfr. Giovanni 6, 22-59 Il pane disceso dal cielo).
Perdonaci:
Essere perdonati da Dio significa accettare il suo amore, vedere e sperimentare la portata del suo amore, che non guarda ai meriti ma dona la sua vita per i suoi figli in modo completamente gratuito. Chi accetta questo dono si affida a questo amore incondizionato. Il criminale crocifisso accanto a Cristo, dopo aver riconosciuto di non essere degno confessando di aver meritato il supplizio della croce, si apre alla misericordia di Cristo e fa appello alla bontà del Padre, dicendogli: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42). Questo gli basta per accettare l’immensità del dono. Cristo rispose: “Amen, ti dico che oggi sarai con me in paradiso”. (Luca 23, 43). L’amore di Dio che abita in chi lo accoglie porta frutto. Sapere di essere amati trasforma il nostro modo di guardare il mondo e il prossimo. La prova di aver ricevuto veramente questo amore è che chi è stato perdonato vorrà a sua volta moltiplicare questa esperienza, offrendo il proprio perdono a chi è in debito verso di lui. Il per-dono è il dono rinnovato dell’amore di Dio. Dio offre nuovamente il suo amore a coloro che lo hanno tradito e abbandonato. Aver accolto l’amore di Dio precede la generosità dell’uomo verso il prossimo; è perché ha accolto liberamente l’amore di Dio nel suo cuore che anche lui può perdonare chi è in debito con lui. Così, quando Zaccheo, l’esattore delle tasse disonesto, accoglie la proposta di Gesù di venire abitare da lui, contempla l’immensità dell’amore di Dio, che ha guardato a lui senza badare alle sue malefatte e che gli rinnova l’invito ad aprire la porta del suo cuore perché il suo amore possa abitare in lui. È a questo punto che Zaccheo, avendo misurato la grandezza dell’amore di Dio per lui, ne è colmato e desidera a sua volta esserne degno: per questo dona la sua fortuna ai poveri e restituisce quattro volte tanto a coloro che aveva ingannato. Gesù ci invita, per prima cosa, ad accogliere veramente questo amore e questo perdono da parte di Dio, e poi ad offrirlo noi stessi agli altri. Prima, dunque, la richiesta del pane di vita, che ci apre a ricevere, poi l’essere umano che ha assimilato il cibo divino, diventa simile a Dio e perdona a sua volta. Solo allora sarà reso degno di accogliere Dio, perché Dio stesso lo avrà trasformato e purificato.
La prova: Tutta la vita è una prova che ha lo scopo di portare l’uomo a vivere l’amore più grande, a sperimentarlo pienamente. L’amore più grande è dare la vita per i propri amici (Gv 15,13). Ogni volta che qualcuno è afflitto da una prova, attaccato da nemici, ha l’opportunità di offrire un gesto d’amore più grande, di vivere questo amore dare la propria vita come Cristo l’ha offerta. Allora egli stesso avrà vissuto l’amore e sperimentato la vittoria di questo amore su ogni male. Gli apostoli dicono: “Siamo pressati in ogni modo, ma non schiacciati; siamo indigenti, ma non disperiamo; siamo perseguitati, ma non abbandonati; siamo abbattuti, ma non distrutti; portando sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Noi che viviamo, infatti, veniamo continuamente consegnati alla morte per amore di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinzi 4:8-11). In altre parole, invece di portarli a odiare i persecutori, le prove degli apostoli erano un’opportunità per mostrare al mondo un amore ancora più grande. Tuttavia, c’è un pericolo nella prova: il pericolo di cedere alla disperazione, di rispondere al male con il male. Questa è la prova che il popolo ebraico ha vissuto nel deserto, quando ha pensato di essere stato abbandonato da Dio e da Mosè e si è rivolto ad altri dei. Il luogo in cui ciò avvenne si chiamava Massah (dal verbo nassah, mettere alla prova), dove il popolo mise alla prova Dio, perché dubitava e accusava il Signore di averli abbandonati. Quello che Gesù insegna è che dobbiamo chiedere a Dio di accompagnarci, di guidarci nei momenti di dubbio, di disperazione e di rivolta, affinché con lui possiamo superare la prova ed essere vittoriosi sul male, senza che questo ci separi da Dio. Non lasciarci entrare nella prova, che la prova non ci distrugga e non ci separi da te, ma che attraverso di essa tu possa condurci alla vittoria sul male. Chiunque possa dire Padre nostro, cioè santificare il suo nome, perché mostra veramente la sua filiazione divina, ha già ricevuto tutto da Lui. “Tutto quello che chiedete nella preghiera, l’avete ricevuto e sarà vostro” (Marco 11:24) e “Quanto più il Padre che è nei cieli darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Luca 11:13). Se non perdoniamo a nostra volta, se non offriamo la nostra guancia, è perché non abbiamo ancora contemplato e accolto il per-dono di Dio, perché il suo amore non abita in noi. “Se dunque camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, suo figlio, ci purifica da ogni peccato; se diciamo di non avere peccato, ci sbagliamo e la verità non è in noi” (1 Giovanni 1:7-8). Essere in questa assemblea di santi significa chiederne la grazia ogni giorno e accogliere ogni giorno le prove come un’opportunità di accedere all’amore, di provarlo e dimostrarlo. Se dovessimo fallire settanta volte sette volte, il male non avrà l’ultima parola: “rimanete saldi, fedeli fino alla fine”. È lì che Dio darà tutta la sua misura, nella debolezza di chi ha riconosciuto ogni giorno la propria debolezza, di chi ha chiesto di essere fortificato, di chi Dio ha condotto attraverso la prova e infine liberato.
Matteo 6,6-13 (parallelo in Luca 11,2-4)
6 σὺ δὲ ὅταν προσεύχῃ, εἴσελθε εἰς τὸ ταμιεῖόν σου, καὶ κλείσας τὴν θύραν σου, Πρόσευξαι τῷ πατρί σου τῷ ἐν τῷ κρυπτῷ- καὶ ὁ πατήρ σου βλέπων ἐν τῷ ἀποδώσει σοι ἐν τῷ φανερῷ.
6 Tu, invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la porta, prega il padre tuo che è nel segreto e il padre tuo che vede nel segreto te [lo] renderà.
7 Προσευχόμενοι δὲ μὴ βαττολογήσητε, ὥσπερ οἱ ἐθνικοί- δοκοῦσι γὰρ ὅτι ἐν τῇ πολυλογίᾳ αὐτῶν εἰσακουσθήσονται.
7 Quando pregate, non dilungatevi in parole come quelli degli [altri] popoli, perché pensano che, se parlano molto, saranno ascoltati.
8 μὴ οὖν ὁμοιωθῆτε αὐτοῖς- οἶδε γὰρ ὁ πατὴρ ὑμῶν ὧν χρείαν ἔχετε, πρὸ τοῦ ὑμᾶς αἰτῆσαι αὐτόν.
8 Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno, prima che glielo chiediate.
9 οὕτως οὖν προσεύχεσθε ὑμεῖς- Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς, ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου-
9 Voi dunque pregate così: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome”;
Santificare il nome di Dio: per mostrare la sua gloria e il suo splendore, cioè l’immensità del suo amore. Quando stava per essere innalzato sulla croce, Gesù disse: “È giunta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. Sulla croce, offrendo il perdono anche ai suoi nemici, mostrerà la portata dell’amore di Dio. Anche noi siamo fatti per essere un riflesso di questo amore, di questa gloria di Dio, e per mostrarla al mondo in quanto figli di Dio, figli della luce. Spetta agli uomini santificare il nome di Dio manifestando il suo amore e la sua gloria, così come un padre è glorificato da un figlio le cui qualità riflettono quelle dei genitori. Va aggiunto che alcuni Padri della Chiesa ricordano che il nome di Dio, rivelato agli uomini, è quello di Gesù e che santificare il nome di Dio significa anche professare la propria fede in Gesù Cristo.
10 ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου- γενηθήτω τὸ θέλημά σου, ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ τῆς γῆς-
10 Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.
11 τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον-
11 dacci oggi il nostro pane epioúsion (ἐπιούσιον);
Il pane èpioúsios. Le traduzioni antiche di questa parola sono varie. Ciò è dovuto a una possibile doppia lettura. Infatti la stessa forma, epioúsios, può derivare da due verbi che si scrivono entrambi ἔπειμι (épeimi), ma uno è formato dalla preposizione ἐπί (epí), su, più il verbo εἶμι, andare o venire, e l’altro formato da ἐπί più εἰμί, essere. La forma -oúsios deriva a sua volta dal participio oûs- più il suffisso aggettivale -ios che è identico anche nel maschile singolare per entrambi i verbi, andare ed essere. Quindi, se leggiamo
1. epioúsios come derivato da εἶμι ha il significato di ciò che sta per accadere. Troviamo quindi l’espressione ἡ ἐπιοῦσα ἡμέρα a significare il giorno successivo, ciò che è sul punto di venire. ἔπειμι significa avvicinarsi, avanzare.
2. epioúsios come derivato da εἰμί ha il significato di essere al di sopra, di essere posto al di sopra (in senso figurato un pericolo sta al di sopra, sovrasta, è imminente). In questo caso -oúsios, che contiene il participio del verbo essere, può essere letto anche come un aggettivo che significa: relativo all’ousía, relativo a “ciò che è”. La parola ousía, infatti, è anch’essa formata dal participio del verbo essere e significa quindi ciò che ha la qualità di essere, e questo è stato tradotto in latino come essenza o sostanza.
Tuttavia, la forma epioúsios derivata dal verbo εἰμί, essere, è rara; è una parola che non si trova in altri testi letterari greci antichi, appare solo nei Vangeli. Questa ambiguità nella derivazione dell’aggettivo epioúsios ha portato a due linee di lettura:
1. quelli che vi leggono il pane, il cibo, che Dio fornisce ai suoi figli ogni giorno
2. chi vi vede piuttosto il cibo essenziale, quello che non è solo corporeo, quel pane che riguarda “ciò che è”, la divinità stessa, che viene dall’alto, il pane disceso dal cielo, di cui Gesù parla a lungo.
Ora, in realtà, queste due letture non sono molto distanti tra loro se ascoltiamo la tradizione interpretativa dei cristiani dei primi secoli, in particolare dei Padri della Chiesa. Infatti, entrambe si riferiscono a un cibo che sta sopra di noi, che sta per venire, che è imminente, che sta arrivando. Entrambi si riferiscono al gesto di Dio di provvedere al cibo dei suoi figli e di non far mancare loro ciò che è necessario, ciò che è essenziale, per la loro sopravvivenza, e questo include sia il pane materiale che il cibo spirituale, perché l’uomo non si nutre di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. E la parola che viene da Dio è Gesù stesso, la parola fatta carne. In Giovanni 8:42 Gesù ci dice: “Io sono uscito da Dio” (ἐκ τοῦ θεοῦ ἐξῆλθον); in Giovanni 6:41: “Io sono il pane disceso dal cielo” e in Giovanni 6:35: “Io sono il pane della vita”. (cfr. Giovanni 6:22-59 Il pane disceso dal cielo).
Quindi sia i Padri greci che quelli latini ricordano che Dio provvede al sostentamento dei suoi figli, sia corporeo che spirituale, ma, come Gesù, ci invitano a cercare il cibo che viene dall’alto, quello che nutre lo spirito dopo la nuova nascita del battesimo.
Così:
1. nella tradizione greca, Origene parla di pane la cui ousía viene dall’alto (cfr. Origene sul Padre Nostro).
2. Nella tradizione latina, Girolamo, l’antico traduttore della Bibbia, traduce epioúsios con supersubstantialis, nel senso di “ciò che ha una sostanza al di sopra, superiore”. (cfr. Girolamo sul Padre Nostro).
Entrambe le tradizioni, quindi, collegano immediatamente il pane che viene chiesto nel Padre Nostro alle parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena quando prese il pane: “Questo è il mio corpo”. In questo senso, il pane di cui si parla nel Padre Nostro è il pane che Gesù stesso ci dona, un pane che contiene l’ousía divina, un pane che è disceso dal cielo, come annunciò dopo la moltiplicazione dei pani sul monte quando disse: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35).
Ma per ben comprendere il significato delle parole di Gesù, dobbiamo anche ricordare le parole che venivano usate all’epoca nelle versioni aramaiche della Bibbia, come fa Girolamo nel suo Commento al Vangelo di Matteo. Ora, ciò che Gesù esprime quando introduce il Padre Nostro (Matteo 6,8), dicendo: “Il padre vostro sa di che cosa avete bisogno prima che glielo chiediate”, corrisponde a una visione della sollecitudine divina verso i suoi figli molto diffusa tra i popoli semitici. È ciò che esprimono ancora oggi i popoli di lingua araba quando parlano di rizq, la parte che Dio ci dà ogni giorno. Dio, che sa di cosa le persone hanno veramente bisogno, fornisce loro non solo il necessario per la vita quotidiana, ma anche il nutrimento spirituale che le radicherà nella vita eterna, la vita del regno dei cieli. L’essenza di questa vita è il legame d’amore che unisce gli uomini a Dio e tra loro. È attraverso lo spirito di Dio che l’umanità sussiste, unita a Cristo che è il capo di un corpo di cui gli uomini sono le membra: il suo spirito dà loro la vita, questo spirito che viene da Dio. Nutrirsi del corpo di Cristo, bere il suo sangue, significa unirsi a lui ed essere vivificati e rafforzati dal suo spirito.
Per capire che ciò di cui abbiamo bisogno per vivere ogni giorno ci viene dato da Dio, dobbiamo anche analizzare l’episodio della manna, il cibo di cui Dio nutriva il popolo ebraico mentre veniva condotto attraverso il deserto verso la terra promessa. Quando il popolo rimase senza cibo, Dio inviò loro la manna, una sostanza che potevano raccogliere dalla superficie del terreno al mattino. La particolarità di questo cibo era che non poteva essere immagazzinato, non poteva essere conservato per il giorno successivo. Ogni giorno dovevano affidarsi al giorno successivo, ogni giorno dovevano confidare nell’aiuto di Dio. Questo episodio è raccontato nel capitolo 16 del libro dell’Esodo, il cui versetto 4 dice quanto segue:
וַיֹּ֤אמֶר יְהוָה֙ אֶל-מֹשֶׁ֔ה הִנְנִ֨י מַמְטִ֥יר לָכֶ֛ם לֶ֖חֶם מִן-הַשָּׁמָ֑יִם וְיָצָ֨א הָעָ֤ם וְלָֽקְטוּ֙ דְּבַר-יֹ֣ום בְּיֹומֹ֔ו לְמַ֧עַן אֲנַסֶּ֛נּוּ הֲיֵלֵ֥ךְ אִם-לֹֽא׃
E il Signore disse a Mosè: “Ecco, io farò piovere pane dal cielo per voi, e il popolo uscirà e raccoglierà ogni giorno la parola (devar) del giorno, affinché io li metta alla prova: cammineranno o no secondo la mia torah [dalla radice iarah insegnare, guidare]?”.
È interessante notare che il pane che il popolo raccoglierà ogni giorno è chiamato parola (devar) del giorno. Ora, questa parola è molto importante perché le dieci parole che Dio diede a Mosè sul Monte Sinai sono anch’esse chiamate devarim (plurale di devar) e in questo stesso versetto troviamo la parola torah, che designa anche, oltre alla “guida” quotidiana di Dio, tutto l’insegnamento che Dio diede al suo popolo. Ecco quindi un cibo miracoloso che guida il popolo anche attraverso la parola di Dio, secondo il suo insegnamento. Ed ecco cosa viene chiaramente specificato: non si può accumulare, non si può farne provvista; è ogni giorno che bisogna confidare nell’assistenza divina, nel suo rizq, la parte vitale assegnata a ogni persona: ogni giorno il popolo deve lasciarsi guidare da lui, ogni giorno deve rinnovare la sua fiducia e quindi la sua fede in lui. Anche Gesù, nel lungo discorso che segue il Padre Nostro, ci esorta a non accumulare ricchezze, a non fare provviste, a non preoccuparci del domani, ci ricorda che “a ogni giorno basta la sua pena (o male, in greco kakía κακία, ciò che è brutto, cattivo)” (Matteo 6, 34).
Le traduzioni più antiche di questa parola sono quelle che si trovano nei lezionari aramaici o aramaico-siriaci, cioè i libri che venivano usati per la liturgia nei monasteri o nelle chiese della Palestina o di altre regioni in cui si parlava un dialetto aramaico chiamato siriaco (vedi Versioni aramaiche del Padre Nostro). Una versione della Bibbia in siriaco, chiamata Peshitta, era utilizzata nelle chiese orientali. Tra i commenti dei Padri della Chiesa sulla parola epioúsios, il commento dell’antico traduttore della Bibbia in latino, San Girolamo, cita diverse traduzioni aramaiche di questa parola. Ecco i diversi termini utilizzati nei testi aramaici per tradurre epioúsios:
‘atira, ‘atirin: (lezionario aramaico) ricco, abbondante. Si potrebbe anche immaginare la variante ‘atidin: che deve venire, che sta arrivando.
sunqonon: (usato nella Peshitta) dalla radice snq avere bisogno, essere necessario. Questa stessa parola si trova anche in 1 Corinzi 12:22 per tradurre il greco anankaîos che significa necessario.
amyno deyuma’: (Cureton) in cui confidiamo (amyno), di questo giorno (deyuma’).
amyno dekolyom: (palinsesto sinaitico) in cui confidiamo o costante (amyno) di ogni giorno (dekolyom)
12 καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν, ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν-
12 E rimettete a noi i nostri obblighi, come anche noi rimettiamo a coloro che sono obbligati verso di noi;
13 καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν, ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ. [ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας. ἀμήν…]
13 Et non lasciarci entrare nella prova, ma liberaci dal male. [Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen].
Non farci entrare (mē eisenénkēis hēmās) nella prova: nelle versioni aramaiche più antiche e anche nella versione siriaca della Peshitta, al verbo greco eisphérō che significa introdurre, condurre verso o dentro, corrispondono le forme aramaiche t’il e t’l, forme causative della radice ‘ll che significa entrare e che quindi hanno lo stesso significato che in greco: far entrare. Un’altra antica versione siriaca dei Vangeli (Cureton) include la forma causativa tyt del verbo ‘t’ venir, che significa anche condurre.
Tentazione: tutti i testi aramaici usano la stessa parola, nesyono, dalla radice nsy, la cui forma intensiva, nessy (nissah in ebraico), significa mettere alla prova. Questa radice è presente in un famoso episodio della Bibbia, quando il popolo si ribella a Dio, lo sfida e lo mette alla prova. Quando il popolo fu condotto nel deserto dalla nube luminosa, in cammino verso la terra promessa, si trovò senz’acqua e gridò a Mosè. Mosè, che rischiava di essere lapidato, chiamò Dio, che gli disse di colpire la roccia con il bastone che aveva miracolosamente diviso le acque quando erano usciti dall’Egitto e di far bere al popolo l’acqua che sarebbe scaturita dalla roccia. Mosè chiamò allora il luogo Massah e Meribah, come spiega il versetto in Esodo 17:7:
וַיִּקְרָא֙ שֵׁ֣ם הַמָּקֹ֔ום מַסָּ֖ה וּמְרִיבָ֑ה עַל-רִ֣יב ׀ בְּנֵ֣י יִשְׂרָאֵ֗ל וְעַ֨ל נַסֹּתָ֤ם אֶת-יְהוָה֙ לֵאמֹ֔ר הֲיֵ֧שׁ יְהוָ֛ה בְּקִרְבֵּ֖נוּ אִם-אָֽיִן׃
Ed egli [Mosè] chiamò quel luogo Massah e Meribah a causa dell’accusa mossa dai figli d’Israele e per il fatto che essi misero alla prova il Signore, dicendo: “C’è o non c’è un Signore con noi?”.
Questo passo spiega, tra l’altro, l’etimologia della parola Massa, che deriva dal verbo nissah mettere alla prova; infatti Mosè dice: il fatto di metterli alla prova (nassotam), che può essere tradotto in francese come: le fait qu’ils ont mis à l’épreuve. In effetti, hanno messo Dio alla prova, questo è il significato del verbo nissah e la parola aramaica nessayona esprime esattamente questo, il fatto di essere messi alla prova. Una tentazione, ma una tentazione con uno scopo, quello di evidenziare e rivelare la fedeltà e la grandezza dell’anima dei santi. Qui il popolo vuole mettere alla prova Dio, ma spesso nella Bibbia è Dio che mette alla prova i suoi fedeli, per mettere in evidenza la loro fedeltà, come si vede nel libro di Giobbe, o nel libro della Genesi (22, 1-18) dove Dio mette alla prova la fede di Abramo chiedendogli di sacrificare suo figlio Isacco. Questo non solo evidenzia la fedeltà di Abramo o di Giobbe, ma rivela anche la grandezza di Dio e la sua stessa fedeltà. Il libro del Deuteronomio ricorda a più riprese (Deuteronomio 7, 19; 29, 2) le grandi prove (massot) e i segni grandiosi a cui fu sottoposto l’Egitto; essi rivelarono la grandezza di Dio. Dobbiamo anche ricordare che una radice molto vicina a nassah (נסה) è la radice verbale nassa’ (נשא) che significa innalzare. Possiamo quindi capire che lo scopo della prova a cui l’uomo è sottoposto è quello di elevarlo, affinché ne esca cresciuto, affinché la sua fedeltà e quindi il suo amore appaiano e siano vissuti al loro massimo livello. Lo scopo dell’esistenza umana è sperimentare l’amore più grande: “Non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si ama”. La difficoltà del genere umano è quella di credere nell’amore degli altri o di dimostrare agli altri quanto sia grande il proprio amore. È nella prova che questo non solo si rivela, ma se ne fa l’esperienza e lo si scopre. Bisogna averlo vissuto, messo in pratica, sperimentato per conoscerlo e per conoscere se stessi, per sapere di che tipo di amore si è capaci. Questa è la gloria di Dio, di Cristo che ha dato la vita sulla croce e ha rivelato agli uomini l’amore con cui li ama, e questa è la gloria di ogni persona che mostra al mondo fino a che punto l’amore lo anima, questo amore che ha ricevuto da Dio e che lo rende a immagine di Dio. Anche in questo modo, Dio è glorificato nei suoi figli e la creatura in lui. Ma dobbiamo essere capaci di accettare questo amore, di farlo nostro, di andare fino in fondo al nostro amore. Di fronte alle difficoltà si rivela anche la nostra fede nell’aiuto di Dio, quando andiamo oltre le nostre forze, quando affrontiamo la morte: sappiamo che il nemico sarà apparentemente più forte, ma confidiamo nell’amore che sarà ancora più forte della morte, nell’amore che porterà frutto secondo il disegno di Dio. Come spiegato nella Lettera agli Ebrei 11:19 e dall’apostolo Paolo (Romani 4:17): Quando Abramo sacrificò il figlio della promessa, confidò in colui che gli aveva dato la vita, che gli aveva miracolosamente dato un figlio. Credeva che Dio gli avrebbe dato la vita oltre la morte. Per Abramo, sacrificare il figlio sarebbe stato ancora più difficile che sacrificare la propria vita: avrebbe dato volentieri la propria vita per il figlio, ma togliere la vita al figlio, riporre la sua completa fiducia in Dio, era una prova ancora più grande. Era pronto a farlo, ma Dio lo fermò; non era il sacrificio di Isacco che Dio chiedeva davvero, era lui stesso che, in Gesù Cristo, un giorno avrebbe dato la vita per i suoi figli.
Che cosa chiediamo, dunque, quando preghiamo: “Non ci mettere nella prova”? La condizione umana è interamente immersa nella prova e Gesù non ci inviterebbe a chiedere l’impossibile, cioè di essere completamente esenti da questa prova, come dice Origene (vedi Origene sul Padre Nostro). Ma dobbiamo ricordare le conseguenze negative di questa prova se, invece di rafforzare ed elevare l’uomo, lo porta a smettere di credere nell’assistenza divina, nell’aiuto del padre per i suoi figli. Non è assolutamente intenzione dei buoni genitori mettere al mondo un bambino e poi lasciarlo a se stesso, a procurarsi il latte appena nato. La natura prevede che la madre non debba procurarsi il latte da sola, ma le dia qualcosa per nutrire il figlio, e questo vale non solo per gli esseri umani, ma anche per gli animali. Ma un bambino che non vuole ricevere nulla dai genitori è perduto. Questo è ciò che spiega Mosè quando dice che misero alla prova il Signore dicendo: “C’è o non c’è un Signore in mezzo a noi? La tentazione, la prova che porta il popolo ad allontanarsi dal padre e a cercare altri falsi dei, oro, argento. È quello che è successo al popolo quando Mosè si è assentato sul monte per quaranta giorni: si sono fatti un vitello d’oro. Ogni prova è pensata per darci l’opportunità di fare ammenda, di crescere nell’amore, nella fiducia e nella fede. Le prove servono a stabilire una vittoria sul male che mina la condizione umana. Così la preghiera di Gesù insegna a chiedere alle persone di non lasciarle cadere in tentazione fino a separarsi dal Padre, fino a perdere la speranza, oltre le loro forze, ma di renderle vittoriose sul male. Infatti, il verbo rhuomai, con cui chiediamo a Dio di liberarci dal male, significa anche essere salvati, dalla morte, dal male, dal pericolo, dai nemici. Dio prende per mano i suoi figli e li accompagna nelle prove, guidandoli verso la via d’uscita e la vittoria. L’opera di Dio è quella di venire in soccorso dei suoi figli che hanno perso la strada, che sono stati sedotti dal tentatore. L’opera di Dio si manifesta in suo figlio il cui nome, Yehoshu’a, significa “Dio salva”.
14 ἐὰν γὰρ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, ἀφήσει καὶ ὑμῖν ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος-
14 Se infatti perdonerete agli uomini i loro debiti, anche il Padre vostro celeste perdonerà a voi.
15 ἐὰν δὲ μὴ ἀφῆτε τοῖς ἀνθρώποις τὰ παραπτώματα αὐτῶν, οὐδὲ ὁ πατὴρ ὑμῶν ἀφήσει τὰ παραπτώματα04.
15 D’altra parte, se non perdonate agli uomini i loro debiti, neppure il padre vostro perdonerà i vostri debiti.
Luca 11:1-13
1 Καὶ ἐγένετο ἐν τῷ εἶναι αὐτὸν ἐν τόπῳ τινὶ προσευχόμενον, ὡς ἐπαύσατο, εἶπέν τις μαθητῶν αὐτοῦ πρὸς αὐτόν Κύριε, δίδαξον ἡμᾶς προσεύχεσθαι, καθὼς καὶ Ἰωάνης ἐδίδαξεν τοὺς μαθητὰς αὐτοῦ.
1 E avvenne che, mentre stava pregando in un certo luogo, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”.
2 εἶπεν δὲ αὐτοῖς Ὅταν προσεύχησθε, λέγετε Πάτερ, ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου- ἐλθάτω ἡ βασιλεία σου-
2 Disse loro: “Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno”;
3 τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δίδου ἡμῖν τὸ καθ” ἡμέραν-
3 il nostro pane epioúsion dacci ogni giorno;
4 καὶ ἄφες ἡμῖν τὰς ἁμαρτίας ἡμῶν, καὶ γὰρ αὐτοὶ ἀφίομεν παντὶ ὀφείλοντι ἡμῖν- καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν.
4 E rimetti a noi i nostri errori e allora anche noi li rimettiamo a tutti quelli che sono obbligati nei nostri confronti; e non farci entrare nella prova”.
5 Καὶ εἶπεν πρὸς αὐτούς Τίς ἐξ ὑμῶν ἕξει φίλον, καὶ πορεύσεται πρὸς αὐτὸν μεσονυκτίου εἴπῃ αὐτῷ Φίλε, χρῆσόν μοι τρεῖς ἄρτους,
5 E disse loro: “Qualcuno di voi ha un amico e [questo amico] viene da lui a mezzanotte e gli dice: “Amico, prestami tre pani”,
6 ἐπειδὴ φίλος μου παρεγένετο ἐξ ὁδοῦ πρός με καὶ οὐκ ἔχω ὃ παραθήσω αὐτῷ-
6 Poiché un mio amico è apparso dalla strada presso di me e io non ho niente che potrei offrirgli [letteralmente: ciò che gli metterò davanti].
7 κἀκεῖνος ἔσωθεν ἀποκριθεὶς εἴπῃ Μή μοι κόπους πάρεχε- ἤδη ἡ θύρα κέκλεισται, καὶ τὰ παιδία μου μετ’ ἐμοῦ εἰς τὴν κοίτην εἰσίν- οὐ δύναμαι ἀναστὰς δοῦναί σοι.
7 E questo che risponde dall’interno dica: “Non mi disturbare: la porta è già stata chiusa e i miei figli sono già a letto con me: non posso alzarmi e dartelo”.
8 λέγω ὑμῖν, εἰ καὶ οὐ δώσει αὐτῷ ἀναστὰς διὰ τὸ εἶναι φίλον αὐτοῦ, διά γε τὴν ἀναιδίαν αὐτοῦ ἐγερθεὶς δώσει αὐτῷ ὅσων χρῄζει.
8 Io vi dico che, anche se non si alzerà e non gli darà nulla a causa del fatto che è suo amico, si alzerà e gli darà tutto quello che gli serve a causa della sua impudenza.
9 Κἀγὼ ὑμῖν λέγω, αἰτεῖτε, καὶ δοθήσεται ὑμῖν- ζητεῖτε, καὶ εὑρήσετε- κρούετε, καὶ ἀνοιγήσεται ὑμῖν-
9 E io vi dico: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”;
10 πᾶς γὰρ ὁ αἰτῶν λαμβάνει, καὶ ὁ ζητῶν εὑρίσκει, καὶ τῷ κρούοντι ἀνοιγήσεται.
10 Perché chiunque chiede riceve, chiunque cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
11 τίνα δὲ ἐξ ὑμῶν τὸν πατέρα αἰτήσει ὁ υἱὸς ἰχθύν, μὴ ἀντὶ ἰχθύος ὄφιν αὐτῷ ἐπιδώσει;
11 Quale padre di voi, al figlio che chiedesse un pesce, darebbe invece un serpente?
12 ἢ καὶ αἰτήσει ᾠόν, ἐπιδώσει αὐτῷ σκορπίον;
12 O se gli chiedesse un uovo, gli darebbe uno scorpione?
13 εἰ οὖν ὑμεῖς πονηροὶ ὑπάρχοντες οἴδατε δόματα ἀγαθὰ διδόναι τοῖς τέκνοις ὑμῶν, πόσῳ μᾶλλον ὁ Πατὴρ ἐξ οὐρανοῦ δώσει Πνεῦμα Ἅγιον τοῖς αἰτοῦσιν αὐτόν.
13 Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre che è nei cieli darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono.