Ovviamente Dio è al di là delle nostre distinzioni di genere. Tuttavia, la molteplicità delle nostre parole e delle nostre realtà esiste forse per avvicinarci un po’ di più a Lui. Quindi, se consideriamo Dio come Padre, è perché vogliamo affermare che ha avuto l’iniziativa dell’atto creativo; ma se parliamo del suo spirito, del modo in cui ci ama, siamo costretti a ricorrere all’immagine dell’amore materno, un amore che non può separarsi dal frutto del suo grembo. Si tratta di un attaccamento e di una profonda comunione tra la madre e il bambino che porta in grembo. Così Dio è legato all’umanità, indissociabilmente, la alimenta con la sua vita e la prepara ad una nuova nascita oppure possiamo anche pensare, immaginare, che l’intero universo riposi tra le braccia di Dio che gli dà vita, che lo ama. « Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. » (1 Giovanni 3, 2)
Vediamo come si esprimono le parole profetiche della Bibbia nel secondo versetto della Genesi:
:וְהָאָרֶץ, הָיְתָה תֹהוּ וָבֹהוּ, וְחֹשֶׁךְ, עַל-פְּנֵי תְהוֹם; וְרוּחַ אֱלֹהִים, מְרַחֶפֶת עַל-פְּנֵי הַמָּיִם
La terra era tohu va vohu, le tenebre erano sopra l’abisso e lo Spirito (רוּחַ ruaḥ) di Dio aleggiava (מְרַחֶפֶת meraḥefet) sopra le acque.
La parola ebraica ruah, che può essere tradotta con Spirito, soffio, vento, è di genere femminile in ebraico. E vediamo subito che il participio « aleggia », presenta in ebraico la forma del femminile מְרַחֶפֶת (meraḥefet). Questa radice verbale, רחף (raḥaf), è quasi un’onomatopea in cui sentiamo il fruscio delle ali o il soffio del vento. Evoca il battito delle ali di un’aquila che vola sopra i suoi piccoli, come dice il libro del Deuteronomio 32, 11 usando lo stesso verbo per descrivere un movimento leggero, delicato:
כְּנֶ֨שֶׁר֙ יָעִ֣יר קִנֹּ֔ו עַל־גֹּוזָלָ֖יו יְרַחֵ֑ף יִפְרֹ֤שׂ כְּנָפָיו֙ יִקָּחֵ֔הוּ יִשָּׂאֵ֖הוּ עַל־אֶבְרָתֹֽו׃
Come un’aquila che risveglia il suo nido e si libra sopra i suoi piccoli, dispiega le ali, lo prende e lo porta sulle sue ali robuste.
Ecco come viene descritta la tenerezza dell’aquila verso i suoi piccoli: l’uccello risveglia dolcemente i suoi piccoli, librandosi sopra il nido, nel fremito delle sue ali. Vediamo la spiegazione di questo passo data dal rabbino Rashi (Rabbi Shlomo ben Itzhak HaTzarfati 1040-1105), i cui commenti accompagnano spesso le Bibbie ebraiche:
כנשר יעיר קנו. נִהֲגָם בְּרַחֲמִים וּבְחֶמְלָה, כַּנֶּשֶׁר הַזֶּה רַחֲמָנִי עַל בָּנָיו, וְאֵינוֹ נִכְנָס לְקִנּוֹ פִּתְאוֹם עַד שֶׁהוּא מְקַשְׁקֵשׁ וּמְטָרֵף עַל בָּנָיו בִּכְנָפָיו בֵּין אִילָןלְאִילָן, בֵּין שׁוֹכָה לַחֲבֶרְתָּהּ, כְּדֵי שֶׁיֵּעוֹרוּ בָּנָיו וִיהֵא בָהֶם כֹּחַ לְקַבְּלוֹ
Come un’aquila risveglia il suo nido: Li ha guidati con misericordia (רַחֲמִים raḥmim) e compassione (חֶמְלָה ḥemlah), come un’aquila che è piena di misericordia per i suoi piccoli (רַחֲמָנִי עַל בָּנָיו raḥmany al banayw). Non rientra nel suo nido all’improvviso, affinché i suoi piccoli si sveglino e abbiano la forza di accoglierlo, ma batte e agita le ali da un albero all’altro e da un ramo all’altro.
על גוזליו ירחף. אֵינוֹ מַכְבִּיד עַצְמוֹ עֲלֵיהֶם אֶלָּא מְחוֹפֵף — נוֹגֵעַ וְאֵינוֹ נוֹגֵעַ — תלמוד ירושלמי חגיגה ב׳
Si libra sopra i suoi piccoli: non li opprime con il suo peso, ma rimane leggermente sopra di loro – li tocca e non li tocca (Talmud Ierushalmi, trattato Haguigah 2,1) …
Anche nel libro dell’Esodo 19, 4, Dio si paragona a un’aquila che porta i suoi piccoli sulle ali e li salva dall’esercito che li insegue:
אַתֶּ֣ם רְאִיתֶ֔ם אֲשֶׁ֥ר עָשִׂ֖יתִי לְמִצְרָ֑יִם וָאֶשָּׂ֤א אֶתְכֶם֙ עַל־כַּנְפֵ֣י נְשָׁרִ֔ים וָאָבִ֥א אֶתְכֶ֖ם אֵלָֽי׃
Avete visto ciò che ho fatto all’Egitto, come vi ho portato sulle ali delle aquile e vi ho condotto a me.
Anche nel nostro linguaggio, quando diciamo che qualcuno ci protegge o ci prende sotto la sua ala, immaginiamo un gesto tenero e affettuoso. Va anche segnalata la radice aramaica affine a questa רפף (rafaf), la cui forma intensiva (pilpel) è רִפְרֵף (rifref) che evoca anch’essa il fruscio delle ali spiegate. È infatti il participio (םְרַפְרֵף merafref) di questa radice che viene utilizzato per tradurre questo versetto nel commento esegetico della Genesi chiamato Midrash Rabba.
וְרוּחַ אֱלֹהִים מְנַשֶּׁבֶת אֵין כְּתִיב כָּאן אֶלָּא מְרַחֶפֶת, כָּעוֹף הַזֶּה שֶׁהוּא מְרַפְרֵף בִּכְנָפָיו וּכְנָפָיו נוֹגְעוֹת וְאֵינָן נוֹגְעוֹת
E lo Spirito di Dio «soffiava» (מְנַשֶּׁבֶת menashevet), non è questo che è scritto qui, ma « aleggiava » (מְרַחֶפֶת meraḥefet) come un uccello che muove le ali (מְרַפְרֵף merafref) e le sue ali toccano e non toccano.
In questa parola מְרַפְרֵף merafref si sente un’onomatopea e il fruscio delle ali nell’aria.
Ricordiamo che il Vangelo ci offre l’immagine della colomba per rappresentare lo Spirito Santo: «Lo Spirito Santo, sotto forma corporea, come una colomba, discese su Gesù, e si udì una voce dal cielo: “Tu sei il mio Figlio prediletto, in te ho posto la mia gioia”» (Luca 3, 22). Tutto è espresso in questo versetto del Vangelo: la benevolenza del Padre, il suo Spirito che aleggia, dispiega le sue ali sopra Gesù e le sue parole ci dicono che «non ci sono parole che possano descrivere la grandezza di questo dono» (Luca 3, 22). (Luca 3, 22). Tutto è espresso in questo versetto del Vangelo: la benevolenza del Padre, il suo Spirito aleggia, dispiega le ali su Gesù e le sue parole ci dicono che egli è il prediletto, in lui è tutta la gioia del Padre. E Gesù, evocando l’atteggiamento del Padre verso il suo popolo, oserà persino dire, rivolgendosi a Gerusalemme: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Luca 13, 34). Questo affetto sincero – che vede solo la bellezza dei propri piccoli – è tipicamente femminile, come quello della madre che non si separerebbe mai dal proprio figlio, anche se agli occhi della società è un criminale. Per lei, anche da adulto e colpevole, rimane il frutto delle sue viscere, il figlio amato.
Abbiamo già citato il commento di Rashi sull’atteggiamento dell’aquila che si avvicina al nido: li ha guidati con misericordia (רַחֲמִים raḫmim) e compassione (חֶמְלָה ḥemlah), come un’aquila che è piena di misericordia per i suoi piccoli (רַחֲמָנִי עַל בָּנָיו raḥmany al banayw). Egli usa anche le parole bibliche (רַחֲמִים raḥmim) e compassione (חֶמְלָה ḥemlah) che ci parlano dell’attaccamento di una madre che porta i suoi figli. La parola raḥmim deriva da reḥem, il grembo materno, l’utero, e la parola ḥemlah dalla radice ḥamal portare, che in arabo serve anche per dire la donna incinta, che porta, e si trova nella Bibbia per dire compassione.
Non ci stupisce quindi che la Bibbia, accanto all’autorità paterna, introduca immediatamente in Dio il suo affetto materno. E troveremo molti altri passaggi biblici, come quello del libro di Isaia, capitolo 49, versetto 15: «Una donna può dimenticare il suo bambino, non avere più tenerezza (מֵרַחֵם meraḥem) per il figlio delle sue viscere? Anche se lei lo dimenticasse, io non ti dimenticherò» o del Salmo 27, versetto 9: «Mio padre e mia madre mi abbandonano; il Signore mi accoglie».
È vero, questo testo mostra anche la fragilità dell’analogia umana a cui Dio si sottomette. Egli ci parla partendo dalla nostra realtà, dalla nostra esperienza, che è anche il luogo in cui viviamo le nostre fragilità; di conseguenza, l’esempio di un padre tiranno o di una madre che abbandona il proprio figlio rischia anche di compromettere l’immagine che abbiamo di Dio. Tuttavia, l’estrema fiducia che Dio ripone nell’uomo lo porta ad assumersi tutti i rischi. La libertà che ci lascia di amare o non amare potrebbe portarci ad essere un controesempio. Ma lo sguardo di Dio sui suoi figli è quello che vede in loro la bellezza e conosce lo spirito che li abita e li rende a sua immagine e somiglianza. Quindi, nell’espressione biblica, Egli andrà ancora oltre fino a privilegiare, per definirsi, questa parola (reḥem) che porta in sé tutta l’umanità: quella del grembo materno, dell’utero, del ventre materno, delle viscere, il luogo dove si vive il mistero che lega l’essere umano alla vita e al mistero della sua origine. Infatti, in tutta la Bibbia ritroviamo le parole רחם (reḥem utero) e רחמים (raḥmym), così come numerosi derivati (come meraḥem, raḥum) della radice «raḥam» che è onnipresente e che ci parla dell’amore che Dio ci porta, del suo attaccamento, della sua misericordia. Questa parola è comune anche in altre lingue semitiche e in particolare nell’arabo del Corano: «raḥmān» o anche «raḥīm». Se guardiamo al significato di questa parola nelle lingue semitiche, troviamo un significato univoco, quello che indica il luogo in cui il bambino viene portato, generato, il grembo materno, l’utero, il ventre materno. Sia la Bibbia che il Corano ci parlano quindi dell’amore di Dio per noi, della sua misericordia, utilizzando la stessa parola che evoca la madre che porta il bambino in grembo, nel suo utero. In latino questa radice è stata tradotta con “misericordia” e “misericordioso”, che evocano la parola cuore (cor, cordis), ma nelle lingue semitiche l’idea di attaccamento e compassione è legata alla parola reḥem, utero. È questo l’amore che Dio nutre per noi, non può separarsi da noi, è lui che ci dà la vita, noi siamo in lui, c’è un cordone ombelicale tra noi e Dio, siamo legati. «Tutto è da lui, tramite lui e per lui», ci dice la Lettera ai Romani 11, 36 e la liturgia non smette di ricordarcelo. Non c’è nulla al di fuori di Dio, nulla che non sussista in lui e per lui, è proprio questo che ci indica l’immagine dello Spirito che aleggia su tutta la creazione futura. Lo Spirito che dà vita a tutto, abbraccia tutto, copre tutto con le sue ali.
Così, il sapiente ebreo André Chouraqui ci ha proposto di tradurre l’onnipresente «Dio, il misericordioso» con «Dio, il matriciale» (cioè colui che è matrice, utero da cui prende vita la creazione). Scegliendo proprio questa parola inequivocabile per parlarci di Lui, si sottolinea l’attaccamento di Dio alle sue creature. Dio non può separarsi da noi, qualunque cosa facciamo, perché è Lui che ci mantiene in vita in ogni istante, che ci avvicina a Lui con tutto il suo cuore, che ci porta nel suo seno, noi siamo in Lui.
Le parole, i simboli, le realtà dell’intero universo con tutte le sue lingue non potrebbero bastare ad esaurire il mistero di Dio. La Bibbia ne fa ampio uso, ma quante altre tradizioni e lingue cercano ancora di farsi strada verso di Lui? Ognuno lo cerca come un bambino cerca sua madre. Come non meravigliarsi allora della molteplicità dei linguaggi e delle immagini utilizzati da ogni creatura per parlarci di Lui, per parlarci del mistero che infonde in noi la vita e l’amore, come una madre riempie di gioia il suo bambino tenendolo fra le braccia.
Ecco i commenti di Basilio di Cesarea (Cesarea di Cappadocia, attuale Kayseri, 329-379) e Agostino (Tagaste, attuale Souk Ahras in Algeria, 354-430 a Ippona, attuale Annaba in Algeria) sul secondo versetto della Genesi. Essi prestano particolare attenzione alla traduzione della parola מְרַחֶפֶת meraḥefet, che si riferisce allo Spirito di Dio (רוּחַ ruaḥ, soffio, spirito, di genere femminile in ebraico) e ricordano la tradizione siriaca, lingua vicina all’ebraico, che traduce questa parola con riscaldare, covare, evocando proprio il gesto dell’uccello che si posa sopra i suoi piccoli, infondendo loro il suo calore e la sua energia vitale alle uova.